Telegrafica e malinconica recensione de Un ballo in Maschera visto venerdì sera in Arena insieme con reysfilip:
Questo Ballo in Maschera rappresenta un po´ un compendio del Pizzi regista (oddio, regista?), scenografo e costumista ma anche, naturalmente, architetto e pittore: architetture (pseudo)neoclassiche; tavolozza in cui, accanto agli unici quattro colori che Pizzi ha utilizzato negli ultimi anni (bianco, nero, rosso e, molto meno, blu), sorprendentemente riappare il viola, il rosa e l´oro come nelle produzioni di molti anni fa (Orlando Furioso e Tancredi); costumi tiepoleschi; alberi (naturalmente cipressi) stilizzati; le famigerate piume di struzzo (che però in Pizzi non vedevo da anni) e gli ancor più famigerati veli. Sorprendentemente, niente statue. Tutto molto elegante, tutto molto chic, tutto molto molto molto noioso. Coro fermo a fare il coro, cantanti con movenze e gestualitá da vigile urbano costretti a defatiganti passeggiate per l´amplissimo proscenio prive della minima motivazione, assurdità drammaturgiche a iosa… Insomma, l´ennesima dimostrazione che gli anni passano per tutti, ma non per l´evergreen Pizzi, che forse (ma ho seri dubbi) è rimasto magister elegantiarum, ma non è certo diventato un regista.
Francesco Meli, Riccardo, non si risparmia, eseguendo alcune prodezze di cui nessuno si accorge e che quindi a mio parere, in accordo con il precetto evangelico del non gettar perle ai porci, poteva risparmiarsi: acuti sfumati, mezzevoci, salto di tredicesima alla barcarola… Un Riccardo forse non memorabile, ma decisamente “centrato”. Tecnica solidissima, voce immascheratissima (a mio personalissimo gusto forse persino troppo) e ben proiettata, timbro privilegiato, buona capacitá di caratterizzazione del personaggio, bravissimo nel non perdersi negli attacchi al terzetto dell´antro di Ulrica nonostante disti chilometri dalle due donne. Resta comunque il fatto che lo spazio gigantesco dell´anfiteatro lo porta inevitabilmente a forzare, soprattutto negli acuti, e all´ultimo atto se non arriva allo scrocco poco ci manca. La domanda di fondo resta: ma chi glielo ha fatto fare?
Luca Salsi fa il solito Renato declamatore, vociante, con acuti sparati, intonazione precaria e tutti i cliché vocali per cattivo. Siamo in Arena, e fa bene a cantare come in un politeama estivo anni ´50.
Virginia Tola, Amelia, a forte disagio negli acuti è per giunta piuttosto carente di personalità. L´Ulrica della Fiorillo ha la voce spezzata in due o tre tronconi, ed è affetta da un vibrato che compromette ogni possibile valutazione ulteriore. Eccellente invece la Gamberoni: un Oscar spigliatissimo vocalmente e scenicamente.
La direzione di Battistoni ha il merito di garantire una certa coesione all´orchestra e di limitare le (inevitabili) sfasature tra buca e palcoscenico. Le scelte dei tempi sono ragionevoli, così come l´accompagnamento delle voci. Dire qualcos´altro in merito ad una “interpretazione” è impossibile tenuto conto del livello davvero penoso dell´orchestra (quegli ottoni!!!!) e dell´acustica areniana dove, ferma restando l´eccezionalità del luogo, la sua storia, la sua tradizione, le sue dimensioni: 1. Non si sente nulla; 2. Quello che si sente sarebbe meglio non sentirlo; 3. Gli echi e i riverberi del suono sono davvero pervasivi. Coro che ha iniziato bene, ha proseguito male e ha finito peggio.
Arena desolatamente vuota (ed era venerdì sera!!!): due interi settori (i più laterali) addirittura chiusi al pubblico, gradinata numerata quasi deserta, e platea piena per un terzo. Italiani pochi pochi, molti tedeschi.
A mio parere urge ripensare completamente la “filosofia” del festival areniano se non si vorrà arrivare, nel giro di pochi alla débacle.
I problemi sono tantissimi (al confronto la Scala è un teatro "normale"e , di fatto, così è), e legati a molti aspetti. Cosí, in ordine sparso:
1. Peculiaritá del teatro: uno spazio enorme, con ripercussioni indubbie su acustica e possibilitá di lavoro sulla gestualitá e mimica dei cantanti. Al primo problema si potrebbe ovviare con un´amplificazione (impresa tecnicamente al limite del sovrumano). Il secondo problema non è risolvibile a meno di piazzare dei maxischermi. Il gioco vale la candela?
2. Repertorio: impossibile (forse) rinunciare a titoli di grande richiamo. Impensabile che, sulla base del solo titolo e senza considerare come esso venga realizzato, si possa riempire l´Arena con titoli come Don Giovanni o La Gioconda.
3. Pubblicità: occorre pensare ad un rilancio dell´immagine del festival. La martellante campagna pubblicitaria in TV con Domingo e i manifesti uguali nella grafica da almeno dieci anni non aiutano piú di tanto.
Il fatto è che, a mio parere, andrebbe condotta prima di tutto una seria indagine di mercato per capire chi sono le persone che vengono in Arena (nazionalità di origine, appassionati, curiosi, famiglie, vecchi, giovani, uomini, donne….), quali motivazioni li spingano e cosa si aspettino di trovare. L´impressione è che questo non sia stato fatto, o non a sufficienza. Ma capire che razza di pubblico hai davanti è essenziale per la programmazione! Esempio: se hai davanti in maggior parte giovani abituati all´ascolto di musica iPod e a vedere video-clip su MTV non puoi pensare di fare il pienone con l´Aida del 1913: li freghi un anno, ma l´anno dopo non tornano!!!
Se la realtá che emerge è quella di un pubblico estremamente eterogeneo la soluzione non può che essere una programmazione eterogenea. Ossia l´esatto contrario delle monotone zeffirelliadi e pizziadi che abbiamo visto in questi ultimi anni.
Che dite?
DM