Sono stato presente al Carlo Felice (platea quasi al completo, gallerie con molti vuoti) alla prima di Otello, che ha registrato un trionfo da stadio con urla di entusiasmo all'indirizzo dei tre protagonisti, del direttore, del regista. Trionfo meritato: è un gran bell'Otello, questo nato a Valencia. Lo è, innanzi tutto, per l'allestimento di Davide Livermore: bellissimo il disco - scena unica ma mobile - sul quale Livermore muove in sostanziale circolo (tutti sono come prigionieri di tutti: perfetto) i personaggi, con uso "drammaturgico" di splendide luci che ammantano, di volta in volta, la scena. Era stato citato, da chi vide l'allestimento a Valencia, un momento culmine, il "Dio mi potevi scagliar" con Otello scenicamente doppiato da Jago, ma c'è molto altro. Tutto il movimento di Jago è la costruzione scenica d'un'abiezione dell'anima, cui corrispondono tutte le azioni di Otello che ne svelano il rovello e l'avvelenamento progressivo dell'anima. E, se nei primi atti la "visione" registica di Desdemona appare più convenzionale, nell'ultimo c'è un altro momento stupendo: sulla chiusura della preghiera di lei sdraiata (quasi fetale) a terra (miracolosi i filati dell'Agresta in quella posizione!) in un cono di luce nel buio, Otello appare, in fondo alla scena, elevandosi da un "riquadro" di nubi grigie che danno tutto il senso di minaccia e di morte imminente: bellissimo, come bellissimo - finalmente proiezioni "sensate" - è il mare in tempesta iniziale, che poi ritornerà nella scena degli ambasciatori; come bellissimi (finalmente nessun paltò o impermeabile!) sono i costumi, in particolare quelli sui toni argento - speculari - di Jago e Otello, che solo alla fine "veste" di bianco e rosso.
Bisogna poi dire che i tre protagonisti sono grandiosi, in se stessi e nell'adesione al progetto scenico. Carlos Alvarez ha fatto annunciare un (reale, e percepibile) raffreddore. Ma anche così, con qualche suono un po' intubato e qualche lieve smagliatura della peraltro splendida, rotonda, calda voce, il suo Jago è uno dei migliori (il migliore?), oggi e non solo: con questa performance mai sguaiata e tanto più feroce, vile e nobile allo stesso tempo, Alvarez (salutato da una enorme, giustissima ovazione) si pone fra i grandi interpreti del ruolo. D'altra parte, l'Otello dello stupefacente Kunde (l'uomo che può cantare i due Otello) appare molto approfondito, nella psicologia, nei tormenti, nella scolpitura della parola, rispetto alle già valide performances veneziane: qualche nota o inflessione dura è perdonabilissima (anzi in qualche momento dà espressione) nel quadro d'una prova di adesione ammirevole al personaggio. Maria Agresta offre a Desdemona la sua bellissima voce, bellissima quando "canta". Il "recitato" - che in Otello c'è - è forse perfettibile: riascoltandosi la Agresta potrebbe forse evitare certe inflessioni un po' querule, bamboleggianti, che rendono un po' più convenzionale un personaggio invece disegnato benissimo dall'Agresta nel terzo e quarto atto (l'Ave Maria, in particolare, mirabile, nonstante il tempo fin troppo estenuato scandito dal direttore).
Già, il direttore: devo in parte smentire me stesso e dichiarare senza problemi che, stavolta, Andrea Battistoni "c'è". Con difetti noti ma anche con notevoli pregi. Il "concertatore" - Otello lo richiede - si conferma "giovane", nel senso di acerbo, rispetto all'audacia dei titoli affrontati. Là dove c'è da tenere in mano il palcoscenico (quartetto atto 2, concertato atto 3) l'assieme latita, c'è quel senso di vuoto fra buca e scena che molto si era notato nelle Nozze, alla Scala. Ma, salvo questo, il Battistoni di Otello a Genova è ben altro da colui che, allora evanescente dal podio, si ascoltò in Mozart a Milano (con un'orchestra scaligera che - più volte si è riscontrato - è "maestra" nel piantare in asso i direttori, quando decide di farlo). Fra i difetti noti, restano il divario fra un gesto concitato (eufemismo) e gli esiti che esso (non) produce e la tendenza a trascorrere su tempi variabili fra "presto eccitato" e "adagio inerte". Eppure il ventiseienne veronese è, in questo Otello, un musicista che trova, che evoca all'istante ( e questa è musicalità) il colore giusto, la frase perfetta, che si elevano dall'orchestra e avvolgono scena (e pubblico) con una naturalezza che avvince, con diversi momenti (uno su tutti: i tromboni nel commiato di Otello) di grande fascino, che rendono meritato il successone attribuito al direttore, che a nostro avviso, così come è apparso in questa occasione, è ad un bivio di carriera: o studio (tanto!) e maturazione, sulla base di doti naturali, o il gioco pericoloso del fanciullo prodigio che macina podii e pagine di giornali. La prima scelta potrebbe darci, fra qualche tempo, un signor direttore di cui parlare per meriti più che per precocità. La seconda, se disgiunta da studio e accortezza, ci darebbe solo - allorché l'età giovanile, che dura poco, sarà trascorsa - uno pseudofenomeno mediatico e vuotamente "spettacolare". A 26 anni si può stupire, a 40 ci vuole "sostanza": sta ad Andrea Battistoni in prima persona - e a chi ne segue il cammino - fare le scelte più opportune.
Al di là di tali considerazioni, il caldo consiglio è: andate a vedere e ad ascoltare (con il primo cast: del secondo non ho conoscenza) questo Otello di cui Genova e il suo teatro possono andare giustamente orgogliosi.
marco vizzardelli