ERNANI A ROMA 2013
Inviato: ven 13 dic 2013, 22:21
Roma batte Milano 1 a 0. Così potrebbe iniziare la recensione di un gran bello spettacolo come l’Ernani inaugurale della stagione 2013-14 dell’Opera di Roma, dopo le polemiche e i dissensi provocati dalla Traviata scaligera. Qui, al contrario di Milano, fischi e buu non si sono sentiti, ma c’è stato un vero entusiasmo. La vicenda del nobile bandito spagnolo portata sulle scene da quel grande romanziere che è stato V. Hugo nel 1830, musicata da G. Verdi e rappresentata a Venezia nel 1844 (14 anni dal drammone francese in 5 atti!), questa vicenda – dicevo – è tornata sul palcoscenico del Costanzi in una pregevole edizione con la regia e le scene di Hugo de Ana e i costumi (molto variopinti ed eleganti curati da A. Biagiotti). È da riconoscere come il Bussetano ci fa già intravedere in quest’opera elementi che ritroveremo rielaborati in seguito (alcune situazioni di Trovatore, alcuni accordi di Rigoletto, ecc.), ma è un’opera che, personalmente, mi fa arrabbiare soprattutto per la trama: ora, al di là del contesto storico, mi chiedo: come si può affidare la propria vita ad un giuramento suicida e fuori da ogni logica e soprattutto – visto che Verdi sa dipingere eroine volitive come Lady e Abigaille – come Elvira non uccida lei stessa colui che le sta mandando in rovina il sogno d’amore e che anzi gli chieda pure scusa? Davanti a queste trame Verdi mi diventa veramente antipatico. Fatta questa parentesi e tornando allo spettacolo, il regista argentino – al quale va il merito di sottolineare nelle sue realizzazioni il lato corrusco delle trame – ha ricreato una Spagna barocca oppressiva e magniloquente nella sua sfarzosità, ma anche nel saper far muovere molto efficacemente tanto i 4 protagonisti principali, quanto le masse corali ravvivando, nella II scena dell’ultimo atto, la festa nuziale con alcuni movimenti di danza dame e cavalieri nell’imminenza del matrimonio tra Elvira ed Ernani. Da notare che De Ana ha offerto una lettura visiva assai efficace anche per la contrapposizione di colori cupi per tutto quello che, nella storia, è impregnato di mistero per poi aprirsi, nella parte finale, ad una significativa e gioiosa luminosità molto consona al momento.
Scene barocche fisse, ma un sapiente movimento di elementi ha reso lo spettacolo assai godibile.
Muti conosce questa partitura molto bene e da par suo si è prodigato in un lavoro di squadra in cui emergeva l’affiatamento con i cantanti e il soccorrere, laddove era necessario (ma pochi punti in verità), qualche cantante in difficoltà. Per il resto, l’enfasi quarantottesca e nobilmente paesana di Verdi c’era tutta (e come non poteva esserci da un direttore entusiasta come Muti e da un’opera che si presta a tali sottolineature), ma anche momenti di una delicatezza e trasparenza davvero uniche (il finale è stato splendido, ma occorre considerare anche il validissimo apporto dei cantanti). Tra gli altri momenti segnalerei anche il fosco commento della congiura (il famoso «ad augusta per angusta»), come anche la scena del giuramento dove sinistre venature orchestrali aggiungevano mistero ad un momento già enigmatico di suo. Una direzione che definire potente e significativa è un portare i proverbiali vasi a Samo.
Francesco Meli è stato un grande Ernani: la voce è liricheggiante è vero e, forse, per noi abituati alla linea muscolare di un Del Monaco e di un Corelli poteva lasciare un po’ interdetti, ma c’è da chiedersi se i due famosi tenori summenzionati servivano il personaggio dando ad esso una patina giovanile oppure si limitavano a scaricare enfatiche tonnellate di suono, mettendo in scena sé stessi. Meli ci restituiva un giovane nobile che si era dato alla macchia ed aveva consacrato al banditismo la propria vita dopo le note traversie familiari dovute al potere assolutista. Se ci riflettiamo Ernani anticipa se vogliamo il Ramerrez di Fanciulla del West con una propria problematica esistenziale che noi ritroviamo espressa prima del suicidio («solingo errante e misero» precede tematicamente il pucciniano «Or son sei mesi»). Di conseguenza emergeva un personaggio scattante, eloquente, innamorato capace di bei suoni anche nei pianissimi senza che la voce soffrisse nei momenti più arroventati. Dopo l’ottimo Adorno del Simon Boccanegra inaugurale della passata stagione, Meli si conferma un ottimo elemento italiano che canta nella nostra lingua senza artefazioni, ma facendo della sua conformazione lirica un ottimo strumento per evidenziare caratteri che altri interpreti, sulla carta, più ‘idonei’ rischiano invece di passarvi sopra, tanto nel canto come nell’interpretazione. Faccio un paio di esempi che mi paiono indicativi: Meli ha cantato alla perfezione e con voce tonda e brillante tutta la sua sortita con agilità tornite (tenendo conto dei ‘da capo’ riaperti): questo conferisce gusto all’ascolto. Il finale, poi, era da lui eseguito con pianissimi e con un’espressività davvero commoventi.
Mi fermo qui ed ognuno tragga le proprie conclusioni. Elvira era Anna Pirozzi (l’unica recita che le è stata affidata in alternativa alla Serjan che mi hanno raccontato e che ho letto piuttosto deludente: anche a me non ha convinto in precedenti ascolti di altre opere); ero curioso di sentirla: soprano aduso a parti pesanti (Abigaille in primis) ha una voce corposa in tutti i registri e, importante, non allarga sgangheratamente in basso ‘alla verista’. L’unica cosa che le si può rimproverare è certa carenza di coté virtusistico e nel «Tutto sprezzo» ciò si sentiva, tanto che si percepiva anche un certo rallentamento ritmico. Pero l’interpretazione (ora fremente, ora fiera, ora supplice) c’era tutta.
Un grandissimo (e altro aggettivo non saprei usare!) e sfaccettato Carlo V era Luca Salsi: nobile, ma anche grintoso («Lo vedremo o veglio audace») senza tuttavia mai perdere in morbidezza ed autorità. Molto introspettiva l’esecuzione di «O dei verd’anni miei» e di una sacrale leggerezza l’attacco del concertato «O sommo Carlo». Davvero ottima prova e, insieme a Meli, il migliore del cast. Attendo di ascoltare Salsi nella complessa figura di Rigoletto in coda di stagione. Ildar Abrazakov era il bieco Silva. Non sono molto amante dei bassi slavi applicati al repertorio italiano (se penso al Silva di Christoff mi si rizzano i capelli come la nota Azucena), però Abrazakov si faceva apprezzare per doti interpretative che lo allontanavano dal solito ‘vecchiaccio sdentato e menagramo’ perché reboante, facendone invece risaltare una terribilità nobile e composta e per questo ancor più minacciosa. Non c’è bisogno di sbraitare per esprimere qualcosa: spesso il pianissimo o, addirittura, l’accenno possono risultare ancor più espressivi di un suono all’ennesima potenza. In questo R. Scotto docet e non mi si venga a parlare di calligrafismo.
Buoni, per finire, gli altri cointerpreti e trascinante l’esecuzione del famoso coro «Si ridesti il leon di Castiglia», ma anche altrove i complessi corali diretti da Gabbiani sono stati molto validi. Ma nel Verdi quarantottesco diretto da Muti come non può essere diversamente?
Luca Di Girolamo
PS.: Avverto che in Youtube ci sono filmate alcune scene (come il "Tutto sprezzo" della Pirozzi)
Scene barocche fisse, ma un sapiente movimento di elementi ha reso lo spettacolo assai godibile.
Muti conosce questa partitura molto bene e da par suo si è prodigato in un lavoro di squadra in cui emergeva l’affiatamento con i cantanti e il soccorrere, laddove era necessario (ma pochi punti in verità), qualche cantante in difficoltà. Per il resto, l’enfasi quarantottesca e nobilmente paesana di Verdi c’era tutta (e come non poteva esserci da un direttore entusiasta come Muti e da un’opera che si presta a tali sottolineature), ma anche momenti di una delicatezza e trasparenza davvero uniche (il finale è stato splendido, ma occorre considerare anche il validissimo apporto dei cantanti). Tra gli altri momenti segnalerei anche il fosco commento della congiura (il famoso «ad augusta per angusta»), come anche la scena del giuramento dove sinistre venature orchestrali aggiungevano mistero ad un momento già enigmatico di suo. Una direzione che definire potente e significativa è un portare i proverbiali vasi a Samo.
Francesco Meli è stato un grande Ernani: la voce è liricheggiante è vero e, forse, per noi abituati alla linea muscolare di un Del Monaco e di un Corelli poteva lasciare un po’ interdetti, ma c’è da chiedersi se i due famosi tenori summenzionati servivano il personaggio dando ad esso una patina giovanile oppure si limitavano a scaricare enfatiche tonnellate di suono, mettendo in scena sé stessi. Meli ci restituiva un giovane nobile che si era dato alla macchia ed aveva consacrato al banditismo la propria vita dopo le note traversie familiari dovute al potere assolutista. Se ci riflettiamo Ernani anticipa se vogliamo il Ramerrez di Fanciulla del West con una propria problematica esistenziale che noi ritroviamo espressa prima del suicidio («solingo errante e misero» precede tematicamente il pucciniano «Or son sei mesi»). Di conseguenza emergeva un personaggio scattante, eloquente, innamorato capace di bei suoni anche nei pianissimi senza che la voce soffrisse nei momenti più arroventati. Dopo l’ottimo Adorno del Simon Boccanegra inaugurale della passata stagione, Meli si conferma un ottimo elemento italiano che canta nella nostra lingua senza artefazioni, ma facendo della sua conformazione lirica un ottimo strumento per evidenziare caratteri che altri interpreti, sulla carta, più ‘idonei’ rischiano invece di passarvi sopra, tanto nel canto come nell’interpretazione. Faccio un paio di esempi che mi paiono indicativi: Meli ha cantato alla perfezione e con voce tonda e brillante tutta la sua sortita con agilità tornite (tenendo conto dei ‘da capo’ riaperti): questo conferisce gusto all’ascolto. Il finale, poi, era da lui eseguito con pianissimi e con un’espressività davvero commoventi.
Mi fermo qui ed ognuno tragga le proprie conclusioni. Elvira era Anna Pirozzi (l’unica recita che le è stata affidata in alternativa alla Serjan che mi hanno raccontato e che ho letto piuttosto deludente: anche a me non ha convinto in precedenti ascolti di altre opere); ero curioso di sentirla: soprano aduso a parti pesanti (Abigaille in primis) ha una voce corposa in tutti i registri e, importante, non allarga sgangheratamente in basso ‘alla verista’. L’unica cosa che le si può rimproverare è certa carenza di coté virtusistico e nel «Tutto sprezzo» ciò si sentiva, tanto che si percepiva anche un certo rallentamento ritmico. Pero l’interpretazione (ora fremente, ora fiera, ora supplice) c’era tutta.
Un grandissimo (e altro aggettivo non saprei usare!) e sfaccettato Carlo V era Luca Salsi: nobile, ma anche grintoso («Lo vedremo o veglio audace») senza tuttavia mai perdere in morbidezza ed autorità. Molto introspettiva l’esecuzione di «O dei verd’anni miei» e di una sacrale leggerezza l’attacco del concertato «O sommo Carlo». Davvero ottima prova e, insieme a Meli, il migliore del cast. Attendo di ascoltare Salsi nella complessa figura di Rigoletto in coda di stagione. Ildar Abrazakov era il bieco Silva. Non sono molto amante dei bassi slavi applicati al repertorio italiano (se penso al Silva di Christoff mi si rizzano i capelli come la nota Azucena), però Abrazakov si faceva apprezzare per doti interpretative che lo allontanavano dal solito ‘vecchiaccio sdentato e menagramo’ perché reboante, facendone invece risaltare una terribilità nobile e composta e per questo ancor più minacciosa. Non c’è bisogno di sbraitare per esprimere qualcosa: spesso il pianissimo o, addirittura, l’accenno possono risultare ancor più espressivi di un suono all’ennesima potenza. In questo R. Scotto docet e non mi si venga a parlare di calligrafismo.
Buoni, per finire, gli altri cointerpreti e trascinante l’esecuzione del famoso coro «Si ridesti il leon di Castiglia», ma anche altrove i complessi corali diretti da Gabbiani sono stati molto validi. Ma nel Verdi quarantottesco diretto da Muti come non può essere diversamente?
Luca Di Girolamo
PS.: Avverto che in Youtube ci sono filmate alcune scene (come il "Tutto sprezzo" della Pirozzi)