Wagner - Tristan und Isolde - Westbroek - Dresda - 2013
Inviato: mar 26 nov 2013, 12:35
Esistono i bravi registi, i mediocri e i pessimi. E poi c'è Marelli. Davvero non riesco a ricordare uno spettacolo wagneriano più inutile, soporifero, letargico, statico, prevedibile e ottuso di questo. Andrebbe ripreso in alta definizione e consegnato come programma di esame in un corso di laurea dedicato alla regia d'Opera. Come non si deve fare.
Potrei dilungarmi sulle mille disastrose ingenuità di questa non regia (wielandismi d'accatto mischiati a wagnerismi da scuola serale... grossomodo il ciarpame più bieco del regietheater declinato stile album di figurine) ma voglio soffermarmi solo su una. Tutti, anche i sassi e i cocci più ostili a Wagner, convengono sulla difficoltà di cantare quest'opera. Anche chi ha letto solo Wagner for dummies -forse Marelli no- sa che il tenore e il soprano si ammazzano sulla parte. Bene, sapete cosa fa Marelli? Dopo aver fatto loro bere il filtro li ha chiusi dentro un gigantesco cubo di tulle illuminato di blu e ce li ha tenuti immobili e prigionieri (uno sul lato destro, l'altra sul sinistro) fino alla fine. In teoria ha voluto mostrare che Tristano e Isotta sono amanti isolati e separati anche nell'amore; in pratica non si sentiva una mazza e non si vedeva una mazza. Bravo. Tra l'altro si trattava di una ripresa e il tulle in alcuni punti era smagliato come una calza di una vecchia. Attraverso le fessure -come Fasolt nel Rheingold- vedevo l'occhio della Westbroek. Sapete, ero sì seduto in quarta fila, ma dal lato sbagliato del cubo ovvero quello con dentro Tristano. E così il duettone è diventato un monologo e buonanotte al secchio.
Per fortuna che per tutto il primo atto, l'apertura del secondo e dall' O sink hernieder in poi La Westbroek ha fatto -registicamente- quello che le pareva. Fregandosene della staticità simbolica di Marelli è arrivata al proscenio come Del Monaco nello Chenér di Tokio ed ha dimostrato di che pasta fosse la sua Isolde. Fragile, femminile, sgomenta, carnale, l'icona wagneriana è atterrata dal mondo dell'idee a quello della carne arrivando a costruire un rapporto empatico e travolgente con gli spettatori. Forse solo la Meier di Milano si è avvicinata a tanto, ma si trattava di un tipo di comunicativa diversa. A Milano soffrivi con una donna lacerata da un abbandono, qui ti emozionavi per la semplicità con cui arrivavano concetti che la tradizione voleva ostici, complicati e cerebrali. D'accordo amore e morte; ma finchè la morte non arriva questo amore -ci dice la Westbroek- venda cara la pelle.
Vocalmente certi estremi acuti erano faticosi ma l'iridescenza di questo Wagner costruito sulla significanza teatrale di ogni sillaba mi ha ripagato di tutto il resto. Tulle compreso.
Staatskapelle Dresden di magnifica e immane possanza wagneriana. Non è il tipo di Wagner che amo ma devo dire che -se tradizione dev'essere- allora sposo questa. Corni che sembravano, nel loro sontuoso echeggiare, quasi strumenti boschivi e notturni, violoncelli che ti stordivano, ottoni perentori ed archi setosi. Era l'oceano di cui parla D'Annunzio nel Trionfo della Morte? La cura Thielemann sta dando i suoi effetti e devo dire che mi ha sorpreso molto di più questa prova wagneriana dei Dresden piuttosto che quella di quest'estate a Salisburgo con i Wiener.
Bravissimo anche Zeppenfeld -lo si sapeva- nel ruolo di Marke.
Tengo per ultimo gli altri. Capitanati da Van Aken -improponibile, nel Terz'atto quasi una parodia di Tristano- ho sentito schierati un insieme di vocioni da Wagner oltrecortina, di quelli che t'immagini estinti ma che, a quanto pare, sono rimasti, imbalsamati nei caveau della Semperoper dagli anni Settanta, di quelli abituati a cantare, una sera sì e una sera sì, magari anche con una doppia, Otello, Barbiere, Tristano, Bohème, Trovatore e Cavaliere della Rosa. Battute dette tanto per dirle, gesti fatti tanto per farli, un generico desiderio di finire presto, marcare e andarsene a casa.
Pubblico incandescente.
Curiosità. Una maschera -nella prima porta di platea- ha fatto le parole crociate per tutto il primo atto illuminata solo dalla luce dal palcoscenico. Trattandosi di un piazzato che Marelli ha tenuto fisso per quasi settanta minuti non ha avuto nessun problema di lettura.
WSM
Potrei dilungarmi sulle mille disastrose ingenuità di questa non regia (wielandismi d'accatto mischiati a wagnerismi da scuola serale... grossomodo il ciarpame più bieco del regietheater declinato stile album di figurine) ma voglio soffermarmi solo su una. Tutti, anche i sassi e i cocci più ostili a Wagner, convengono sulla difficoltà di cantare quest'opera. Anche chi ha letto solo Wagner for dummies -forse Marelli no- sa che il tenore e il soprano si ammazzano sulla parte. Bene, sapete cosa fa Marelli? Dopo aver fatto loro bere il filtro li ha chiusi dentro un gigantesco cubo di tulle illuminato di blu e ce li ha tenuti immobili e prigionieri (uno sul lato destro, l'altra sul sinistro) fino alla fine. In teoria ha voluto mostrare che Tristano e Isotta sono amanti isolati e separati anche nell'amore; in pratica non si sentiva una mazza e non si vedeva una mazza. Bravo. Tra l'altro si trattava di una ripresa e il tulle in alcuni punti era smagliato come una calza di una vecchia. Attraverso le fessure -come Fasolt nel Rheingold- vedevo l'occhio della Westbroek. Sapete, ero sì seduto in quarta fila, ma dal lato sbagliato del cubo ovvero quello con dentro Tristano. E così il duettone è diventato un monologo e buonanotte al secchio.
Per fortuna che per tutto il primo atto, l'apertura del secondo e dall' O sink hernieder in poi La Westbroek ha fatto -registicamente- quello che le pareva. Fregandosene della staticità simbolica di Marelli è arrivata al proscenio come Del Monaco nello Chenér di Tokio ed ha dimostrato di che pasta fosse la sua Isolde. Fragile, femminile, sgomenta, carnale, l'icona wagneriana è atterrata dal mondo dell'idee a quello della carne arrivando a costruire un rapporto empatico e travolgente con gli spettatori. Forse solo la Meier di Milano si è avvicinata a tanto, ma si trattava di un tipo di comunicativa diversa. A Milano soffrivi con una donna lacerata da un abbandono, qui ti emozionavi per la semplicità con cui arrivavano concetti che la tradizione voleva ostici, complicati e cerebrali. D'accordo amore e morte; ma finchè la morte non arriva questo amore -ci dice la Westbroek- venda cara la pelle.
Vocalmente certi estremi acuti erano faticosi ma l'iridescenza di questo Wagner costruito sulla significanza teatrale di ogni sillaba mi ha ripagato di tutto il resto. Tulle compreso.
Staatskapelle Dresden di magnifica e immane possanza wagneriana. Non è il tipo di Wagner che amo ma devo dire che -se tradizione dev'essere- allora sposo questa. Corni che sembravano, nel loro sontuoso echeggiare, quasi strumenti boschivi e notturni, violoncelli che ti stordivano, ottoni perentori ed archi setosi. Era l'oceano di cui parla D'Annunzio nel Trionfo della Morte? La cura Thielemann sta dando i suoi effetti e devo dire che mi ha sorpreso molto di più questa prova wagneriana dei Dresden piuttosto che quella di quest'estate a Salisburgo con i Wiener.
Bravissimo anche Zeppenfeld -lo si sapeva- nel ruolo di Marke.
Tengo per ultimo gli altri. Capitanati da Van Aken -improponibile, nel Terz'atto quasi una parodia di Tristano- ho sentito schierati un insieme di vocioni da Wagner oltrecortina, di quelli che t'immagini estinti ma che, a quanto pare, sono rimasti, imbalsamati nei caveau della Semperoper dagli anni Settanta, di quelli abituati a cantare, una sera sì e una sera sì, magari anche con una doppia, Otello, Barbiere, Tristano, Bohème, Trovatore e Cavaliere della Rosa. Battute dette tanto per dirle, gesti fatti tanto per farli, un generico desiderio di finire presto, marcare e andarsene a casa.
Pubblico incandescente.
Curiosità. Una maschera -nella prima porta di platea- ha fatto le parole crociate per tutto il primo atto illuminata solo dalla luce dal palcoscenico. Trattandosi di un piazzato che Marelli ha tenuto fisso per quasi settanta minuti non ha avuto nessun problema di lettura.
WSM