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Nabucco, Scala 2013

MessaggioInviato: lun 04 feb 2013, 20:54
da vivelaboheme
Le recenti polemiche d'argomento "isottiano" non devono far dimenticare che, in questi giorni, alla Scala, è di scena un’ottima messa in scena di Nabucco. Ne è anima, dal podio, Nicola Luisotti, molto festeggiato da pubblico e orchestra al termine della prima rappresentazione . Luisotti ha ribadito quanto già manifesto nelle precedenti apparizioni scaligere: perizia tecnica nella guida dell’orchestra e nel continuo appoggio “sulla frase e sulla parola” assicurato ai cantanti. Il suo è un Verdi idiomatico, sgargiante di colori e traboccante d’energia ove necessario ma non per questo alieno da squarci di grande lirismo. Il suo è un Nabucco assolutamente idiomatico, nel quale, seguito benissimo dall’orchestra e in modo memorabile dal coro preparato da Casoni: “Gli Arredi festivi” è entusiasmante per slancio,drammaticità, intensità, colori. Il concertato “S’appresta gl’istanti” ha uno stacco di gran classe. “Va Pensiero”, alla prima, ha sofferto forse d’un surplus d’emozione, ma l’esecuzione quasi “a onde” studiata con il coro è bellissima e inconsueta . “Immenso Jehovah” è monumentale. Attenderemmo di ascoltare Luisotti in altre opere di Verdi (un Simone, un Don Carlo, anche un’Aida) per capire se all’immediatezza, all’evidente musicalità, al mestiere indubbio, corrisponda un’autentica profondità di lettura. Ma lo si ascolta con piacere e passione: è un Verdi che “ti tiene lì”, inchiodato alla vicenda e alla musica (per inciso: la Sinfonia – almeno la sera della prima – ci è parsa memorabile, e l’orchestra della Scala, quando diretta a dovere, in questo repertorio è totalmente idiomatica. Gioca nel suo campo d’elezione). Luisotti (sempre amabilissimo anche nell’approccio umano, nei toni delle interviste) è, sicuramente affiatato con l’orchestra scaligera, e la sua presenza ricorrente è, volta a volta, vieppiù gradita. Facendo un discorso più lato, non ne conosciamo a sufficienza gli esiti e – ripetiamo il termine – l’eventuale profondità d’interprete in repertorio d’opera differente da quello italiano (di un Daniele Gatti, tanto per esser più chiari nel “discorso lato”, conosciamo – eccome! – Wozzeck e Lulu e Lohengrin e Maetri Cantori e Parsifal, oltreché Otello, Aida, Macbeth e Boheme, per stare ad alcuni “esiti” massimi fra quelli da noi ascoltati, nella vita, dal direttore milanese “candidabile” al podio scaligero).
Ma questo è, appunto, un “discorso lato” e, torniamo a Nabucco: nel quale, dicevamo, Luisotti sa accoppiare, al “fuoco”, il canto, la tenerezza. Doti che qui servono particolarmente, perché alla direzione fa riscontro lo spettacolo, molto lineare e molto bello, di Daniele Abbado. La linearità e fondamentale essenzialità potrebbe esser scambiata per “distacco”. Tutto il contrario: in musica e sulla scena, questo Nabucco è pervaso da un senso di “pietas”: c’è dolore, ma c’è comprensione umana. Non vorremmo sembrar banali nel termine ma ci vien da dire: circola molto amore. Ce n’è per tutti: da Nabucco agli ebrei, da Fenena-Ismaele, fino al magnifico disegno di regia del personaggio-Abigaille. A lei è riservata, in particolare, la “pietas” che pervade la messa in scena (e questo c’è prima di tutto in Verdi, ma molto nella direzione di Luisotti, nel canto, mirabile, della Monastyrska, e soprattutto nel “personaggio” – abbigliamento, acconciatura, movimentie inflessioni – voluto da Abbado). Sì che questo è un Nabucco dal quale si esce, più che esaltati dagli aspetti più “barricaderi” della musica, commossi da questo senso di dolore comune, di “comprensione” che alla fine accomuna i protagonisti e i popoli. Quando nei giorni di vigilia fu annunciata l’ambientazione “ebraica” in clima da Shoah, pareva lecito nutrire qualche timore di “già visto”. Non è così: tutta la materia è trattata da Abbado con una misura, un sensibilità, una leggerezza di “tocco scenico”, che esclude a priori la minaccia di caduta nella retorica, e immerge Nabucco in un clima di “dolore condiviso”, cui tutto concorre: il cimitero ebraico, usato benissimo nel corso dell’opera, gli idoli stilizzati, le diverse disposizioni, sempre “musicali” e bellissime scenicamente, del coro.
Nella compagnia di canto, svetta l’Abigaille di Liudmyla Monastyrska: travolgente nell’invettiva, tenerissima nel dolore. Entrambi gli aspetti trovano rispondenza piena in una voce assolutamente non comune e in una – almeno qui – formidabile presenza scenica. Qualche nota bassa “secca” e un po’” parlata” è l’unico prezzo pagato ad un ruolo – e che ruolo! – sostenuto e dominato con classe e mezzi che strameritano l’ovazione del pubblico.
A Leo Nucci, Nabucco, giova molto – come in Luisa Miller con Martone – l’incontro con un regista quale Abbado che lo veste, per così dire “in borghese” e ne prosciuga – senza avvilirla – la recitazione. Ne esce un “personaggio” di una verità scenica e musicale tale da avvincere e commuovere, nel quale anche i segni del tempo (la voce un po’ asciugata, qualche fatica, qua e là), uniti peraltro alla ben nota, sbalorditiva sicurezza in acuto e alla saldezza complessiva, concorrono al disegno d’un Nabucco attendibile in tutte le sue fasi: la camminata, un po’ “tronca” e trasognata, del Nabucco colpito dal fulmine resterà nella memoria, così come i toni, dolenti o eroici. Grande prova d’interprete e di regia del personaggio. A posto l’energico ismaele di Antonenko e la Fenena di Veronica Simeoni, che ha strumento vocale non poderoso ma educato ed espressivo. Non diremmo di stravedere per timbro e inflessione di Kowaljow-Zaccaria: ma il personaggio è ben disegnato, e concorre all’esito di un Nabucco che senz’altro onora, alla Scala, la ricorrenza verdiana.

marco vizzardelli