Questo Falstaff ha avuto alla prima, in sala, un successo pieno, prolungato e senza ombre con applausi all’intero cast, al direttore e, particolarmente intensi, a Robert Carsen ed al suo team. Parlando con i singoli si riscontravano, invece, fasce differenti di gradimento. Premesso che il gradimento di chi qui scrive è stato alto e dovuto in primo luogo alla “compattezza” complessiva di tutta la proposta, allestimento e musica, proverò a dire la mia.
Questo Falstaff può deludere chi da Robert Carsen si aspetti, ad ogni occasione, la “novità” o il messaggio illuminante. Le garbatissime note di regia disponibili sul programma di sala e sul sito della Scala suggerivano una visione chiara, fondamentalmente semplice, non “sovrapposta” all’opera. La trasposizione in un Inghilterra, diciamo così, protonovecentesca, tocca pochissimo o nulla della vicenda: è Falstaff, letto in maniera ironica, affettuosa, garbata e fondamentalmente sorridente: una lettura scenica nella quale convivono un richiamo all’opera buffa italiana (la recitazione di Mrs Quickly e di Ford, e la scelta, non casuale, di cantanti-interpreti quali Barcellona e Capitanucci, legati a quella scuola) della quale Falstaff è (una fra le mille sfaccettature di un’opera che sfugge alle definizioni) come l’estrema appendice; e l’ambientazione “inglese” che porta a tutta una serie di immagini, di costumi, di modi di esserre. A partire dal divario fra il “gentiluomo” (con tutti i suoi difetti) Falstaff e il più “grossier” Ford: un tema sul quale le note di Carsen – e la realizzazione – sono chiare, divertenti ed esaustive.
La tavola e il cibo sono situazioni di vita nel quale l’essere umano è più autentico. In vino veritas, a tavola si sorride, si vive, si dicono verità o magari ci si racconta qualche bugia: le CORNA – tema fondamentale di Falstaff, che Carsen individua benissimo: alla fine restano in scena, al buio, solo loro, sono il simbolo dell’umanità, quale Verdi ce la propone, quale Falstaff – riflettendo sul mondo e su se stesso – ce la dichiara alla fine dell’opera, con un certo grado di “spleen” (la malinconia nella quale annegano – fra vino e cibo – lo scherzo e la farsa) e con una sostanziale comprensione per il limite della natura umana.
Questo “clima” è stato reso benissimo da Carsen con la recitazione, il “buffo” italiano innestato sull’”inglesità” dell’immagine complessiva: tutta la compagnia ha assorbito e reso bene la “lezione”, in testa a tutti la straordinaria Daniela Barcellona, ma anche lo stesso protagonista, un Ambrogio Maestri-Falstaff ovviamente “identificato” nel personaggio sul piano fisico: vocalità italiana in abito british (Maestri porta alla grande la giubba rossa da caccia alla volpe!). Cito Barcellona e Maestri non a caso perché un’intuizione geniale è stata, qui, la ripetuta identificazione fra Falstaff e Quickly, aiutata sicuramente dalle fisionomie in qualche modo “coincidenti” degli interpreti: l’alta, imponente Barcellona è strepitosa nell’autoironia con la quale gioca in scena con la proria statura e il fisico prorompente e in quella “reverenza” pare davvero che Quickly e Falstaff (anche lei nelle strepitosa cucina dell’atto 2° dà esilarante prova di gradimento del cibo) si identifichino come esponenti di un fondamentale “ben vivere”. Lo “specchio” reciproco fra Quickly e Falstaff si ripete, dopo il bagno di lui nel Tamigi, quando, all’inizio del terz’atto, l’immalinconito, fradicio, ma sempre “filosofo” Sir John, dopo aver esternato le proprie riflessioni di vita… ad un cavallo intento – la testa fuori dal suo box – a mangiare il suo fieno (fra il cavallo, attore strepitoso, e Maestri c’è un evidente feeling: il cantante lo aveva preannunciato nelle interviste di vigilia), riceve l’ulteriore visita di Quickly, che si presenta (altra delizia di Carsen!) vestita da Regina Elisabetta in tenuta equestre: tal quale, fazzolettone e stivaloni. Dal calore del legno della casa, del club, della sala risorante del primo atto (si mangia, quasi ininterrottamente), alla luce abbagliante della cucina di design d’epoca nella quale (con strepitoso caos organizzato) si realizza lo scherzo della cesta, Carsen immette, dall’inizio nel terz’atto nella magia della notte, dalla quale, alla fine , la luce tornerà, anche in sala quando tutti – in scena come in platea – ci ritroveremo “gabbati”, sì, ma anche fratelli in umanità.
Si dirà: ma questo è Falstaff, non c’è niente di nuovo. Va bene, ma – e consiglio ancora di leggere le note di Carsen – non è il “nuovo” a tutti i costi che il regista ha cercato. Quanto la fedeltà “nella” trasposizione: obiettivi a mio avviso centrati benissimo, con considerevole diletto di chi guarda. Che poi, in questo Falstaff, non si respiri un’aura “padana” (ma Maestri e gli altri interpreti vegliano a questo) è un appunto che ho sentito muovere: però torniamo ad un vecchio discorso, non si può “pretendere” da un interprete (in questo caso, il regista) l’aderenza al “modello” che ciascuno di noi ha di un’opera.
La compagnia ha il pregio primo della compattezza. Ribadito che la formidabile Barcellona-Quickly ne è, a mio avviso, la “punta”, è possibile che questa “prima” non abbia colto Ambrogio Maestri nella miglior forma vocale. Ne hanno fatto le spese le parti in “falsetto”: ciò non toglie che la sua aderenza “totale” al ruolo lo renda degno di ammirazione e applauso: e – grande Carsen – “Quando ero paggio” con cosciotto di tacchino in mano, nonchè il “dialogo” con il cavallo colgono in Maestri un “vero” Falstaff. Gli altri su buon livello, Ford impegna forse al limite Capitanucci, che è peraltro strepitoso nell’aderenza scenica alla figura “grossier” voluta dal regista. L’Alice della Giannattasio ha bel timbro, “pieno”, è forse un filo meno precisa “sulla parola” rispetto ai compagni di viaggio. Bene i due ragazzi, in particolare il Fenton di Demuro. Al di là delle qualità – o limiti – soggettivi,si coglie in tutti – ed è merito non da poco – l’adesione ad un progetto scenico-musicale.
La direzione di Daniel Harding si inserisce dialetticamente nel contesto. Ho letto e sentito affermazioni contraddittorie: c’è chi ha trovato la direzione “lenta” chi “vorticosa”. A mio parere è né l’una né l’altra cosa, o meglio è entrambe: ovvero, può essere rapido o posato, ma sempre secondo esigenza drammatica. (la problematica dei tempi in Falstaff vanta esempi di vario genere: si pensi a quello “lento” di Giulini). Di migliorabile (ma era la prima: andrà riascoltato nelle repliche) c’era qualche sincronia nei – peraltro difficilissimi: è uno degli ostacoli da superare, in Falstaff – concertati a tempo doppio, o “sfasato” . Ma è il primo Falstaff di un direttore – di grande valore – poco più che trentenne. E, tanto per cominciare: ogni esecuzione di Daniel Harding è, comunque, come minimo, “segnata” dalla scintilla dell’intelligenza e dello studio, e questo Falstaff non fa eccezione. Harding è ancor giovane e (come da lui stesso dichiarato, ricordando colloqui con Abbado sull’argomento) Falstaff è opera da far tremare i polsi. Una certa cautela d’approccio (destinata a sciogliersi, penso, nelle recite) si coglie e non va a demerito del direttore: Falstaff, a trenta e rotti anni (saranno 38 in agosto, mi risulta), non si affronta con incoscienza, semmai con rispetto. Ma il concertatore Daniel Harding ha fin d’ora, in Falstaff, frecce ottime a disposizione. Il suono, innanzi tutto, anzi due suoni: caustico, appuntito, tutto in rilievo nei primi due atti, che disegnano un Falstaff quasi “novecentesco”, con formidabili sortite dei solisti scaligeri, non una delle quali – va detto – è separata dalla parola e dall’esigenza scenica. A questo proposito: dalla galleria – e ripeto dalla galleria – non si perde una parola: impressioni di amici (di provata competenza) dalla platea erano differenti, ma qui entra in gioco l’acustica scaligera sconvolta dal(la)… Botta ristrutturatrice. Messaggio ai critici: bene fareste a non ascoltare più le opere dalle poltrone di platea. Io mi ci ero abbonato fino a un paio d’anni or sono, sono felicemente tornato ai piani superiori, gli unici dai quali si ascolti in maniera soddisfacente.
Dicevo dei due suoni di Harding: dal caustico-duro-cristallino (e travolgente nella scansione del finale 2) dei primi due atti, il direttore ci immerge (in piena consonanza con quanto avviene in scena) nello “spleen” e nella notte del terzo atto. C’è un momento chiave di trapasso d’atmosfera, stupendamente colto e realizzato da Harding: allorché Quickly (seguita da Alice) intona “Quando il rintocco della mezzanotte” , Harding tiene rilevatissimo, quasi spettrale l’accompagnamento di corno, dando vita ad un impressionante clima di minaccia (giustissimo, in quel momento) che immerge l’opera e noi nella “notte” conclusiva e risolutiva. Altra meraviglia di Harding: la leggerezza volante dell’orchestra nel concertato finale, un velluto baluginante nel quale al direttore non sembra interessare tanto l’esattezza meccanica quanto il “colore”, il “clima”, di questa finale “dichiarazione” d’umanità in cui lo scherzo si scioglie in comprensione, salvo poi… Carsen lasciare in scena solo le corna (prima portate mirabilmente da Maestri: la sua apparizione cornuta sullo sfondo del nero cielo stellato è memorabile); e Harding chiudere con il ritorno, proprio alle ultime battute, del suono “acido-caustico” (c’è, molto in rilievo, il famoso colpo di piatti): direttore e regista – e Verdi – ci lasciano con amore per l’umanità, non senza il “marameo” d’uno sberleffo conclusivo. La vita, in fondo, è un fatto di corna.
marco vizzardelli