La Didone (Cavalli)
Inviato: sab 21 apr 2012, 11:00
PARIGI, CHAMPS ELYSEES 2012
Io, adoratore di Busenello e di tutta la drammaturgia veneziana del '600 (ambito in cui mi sono persino laureato), non potevo mancare la nuova produzione Caen-Champs Elysees di questo capolavoro (La Didone) creata all'alba del Dramma per Musica nel 1641, a firma del maggior librettista dell'epoca, lo stesso dell'Incoronazione di Poppea.
Tanto più che un grandissimo come sir William Christie realizzava qui il suo primo contatto con l'operismo di Cavalli e con un pluridecorato complesso orchestrale (Les Arts Florissants) nato più per gli splendori francesi che per l'apparente semplicità degli Italiani.
Forse per "ipercorrettismo" Christie risulta fin troppo sobrio nella sua direzione (come già Gardiner nella Poppea). Il continuo non è vivace, multiforme, improvvisatorio, orgiastico come con Jacobs, per intenderci. Nè gli accompagnamenti di ariosi e ritornelli hanno l'abbandono sentimentale di una Haim.
In compenso Christie scava sul suono con una pregnanza commovente: assapora la minima sonorità e ne ricava suggestioni fortissime.
Da un punto di vista emotivo, la dimensione tragica-sentimentale del terzo atto prevale - anche per merito degli interpreti - sul dinamismo ironico del secondo, qui effettivamente un po' slentato.
Anche il primo atto (ambientato a Troia durante il sacco della città) ha momenti indimenticabili - come la morte di Corebo - ma anche un senso di omogeneità eccessiva e a tratti persino di noia.
Nel complesso, comunque, un'esecuzione musicale fantastica, tra le migliori esperienze cavalliane della mia vita.
Malissimo invece la regia.
Clément Hervieu-Léger si è rivelato la scelta più infelice possibile immaginabile.
Cosa può aver spinto i direttori artistici (solitamente acuti e illuminati) a scritturare un celebre attore di prosa, poco più che trentenne, totalmente a digiuno di regia musicale, per un testo di simili difficoltà, apparentemente lontanissimo dal nostro gusto e dai nostri ritmi teatrali?
Il principio è comprensibile: il signore in oggetto è come attore specialista di teatro "classico" (famosa la sua interpretazione dell'Andromaca di Racine), inoltre adora il barocco che segue - in veste di pubblico - dalla più tenera infanzia. Basta questo a renderlo graditissimo a tutta la "fighetteria" intellettuale parigina, che affolla gli spettacoli di musica antica.
Il problema è che il Dramma per Musica veneziano (a parte il fatto di essere "per musica" e quindi con un uso dell'immagine completamente diverso da quello del teatro "di parola") è l'opposto stesso e dichiarato della Tragedie Classique francese!
Quest'ultima era "regolata" (ossia seguiva le disposizioni della poetica aristoteliche e la famose "unità" di azione, tempo, luogo); il primo invece apparteneva (insieme al teatro elisabettiano e a quello del Siglo de Oro) alle forme di teatro SREGOLATO, ossia che faceva perno della propria drammaturgia il contrasto, l'ossessiva contrapposizione di spazi, di registri, di epoche, di situazioni.
Se solo Hervieu-Léger si fosse preso il disturbo di leggere la prefazione al libretto dello stesso Busenello (che vanta ironicamente il fatto che, contro a ciò che vorrebbero i saggi, il suo libretto spazia per anni e anni e per luoghi lontanissimi) avrebbe capito che ambientare tutto il secondo e il terzo atto senza intervallo (oltre due ore di musica) in una stessa smunta e insignificante scenografia non è solo un modo per annoiare a morte il pubblico, ma proprio il peggior tradimento possibile alle caratteristiche di questo teatro e questa musica.
Ma no! - direbbe in coro tutta la fighetteria intellettuale parigina - La scena fissa e simbolica ti permette di concentrarti sulla musica!
"L'è comda!" (è comoda!) direbbero invece i più umili barocchisti delle mie parti. In questo modo infatti, oltre a rovinare l'effetto della Didone, il lavoro del regista e dello scenografo costano assai meno fatica che dannarsi l'anima (come sarebbe il loro lavoro) per valorizzare ogni singolo attimo dell'opera, ogni cambio scena, ogni violento contrasto di registro poetico.
Idem per i costumi...
In un'opera come questa che prevede più di venti personaggi (tutti importanti) siamo ahimé disposti a tollerare il fatto che uno stesso cantante ne affronti almeno due o tre!
E questo passi...
Se però tutti i cantanti indossano i soliti vestitini generici alla Chereau, non sarà più possibile distinguere un Dio da un pastore, un messaggero da un re.
Anche qui tutta la fighetteria parigina insorgerebbe: Ma no! E' giusto così! Liberare i personaggi dalle prigioni delle loro maschere! Vestirli genericamente per fare di essi portavoci dell'umanità e non macchiette teatrali vestite in modo buffo"
E ancora dalle mie parti risponderebbero "L'è comda!"... invece che dannarsi l'anima per far comprendere al pubblico - con le sole immagini - una storia complicatissima, piena di personaggi e situazioni contraddittorie, si piazzano tutti i personaggi lì a pontificare, vestiti allo stesso modo, senza minimamante sforzarsi di rendere chiaro un bel niente. Tanto per dirvi, quando appaiono i fantasmi (ce ne sono ben due nel corso dell'opera) essi entrano ed escono come niente fosse, semplicemente con una lucina più chiara addosso. Sfido chiunque a capire che si tratta di fantasmi.
Sono capace anche io, così, di fare il regista.
In compenso l'idolo della fighetteria si è ridestato al finale...
Quel meraviglioso, ironico, travolgente finale, da buon borghese coi piedi per terra che era Busenello, che scriveva i suoi capolavori per illuminati mercanti veneziani, in cui ...poche storie, Didone! Piantiamola con queste fanfaluche! Sei una regina: hai uno stato da mandare avanti! Che sono ste balle di suicidio e di amore infelice? In piedi! Al lavoro! Sposa il re Iarba, del paese confinante, e poche scemenze!
Un finale così è puro genio... ma non per la fighetteria parigina!
E' un tradimento del sublime Virgilio ed è un omaggio alla "cassetta" dell'happy ending!
E così, dopo non aver combinato assolutamente niente per tre ore di musica, Hervieu-Léger decide di concludere il duetto "matrimoniale" tra Didone e Iarba con lei tutta imbrattata di sangue (simbolo del fatto che la donna, benché morta dentro, deve adattarsi a essere strumento passivo nelle mani maschili).
Posso dirlo: una delle peggiori chiaviche di regia della mia vita.
Fortunatamente i cantanti sono stati molto bravi e con punte di eccellenza assoluta.
Magnifico, davvero, il baritenore Krešimir Špicer nella parte di Enea. Vocalmente impressionante (tranne un registro acuto un po' incerto, che comunque non è un problema in questo repertorio), tecnicamente strabiliante (l'intarsio di mezzevoci carezzevoli e caleidoscopici effetti di colore) e interpretativamente coinvolgente.
Eppure anche lui spariva di fronte alla Didone di Anna Bonitatibus.
Ancora una volta dobbiamo andare all'estero per poter apprezzare una delle migliori artiste italiane.
Giunta al vertice delle sue possibilità fisiche e artistiche, la Bonitatibus è un balsamo per gli occhi e le orecchie: appena entra in scena (al secondo atto) si misura lo stacco incolmabile fra lei e tutto il resto.
Tecnicamente sposa le conquiste del colorismo più raffinato, ma nondimeno resta ancorata a un vocalismo antico, che le permette gradazioni dinamiche amplissime e splendore di timbri. Nel suo vocabolario si alternano sfumature iridescenti alla Von Otter, aperture di suono sorvegliatissime e slanci di intensità davvero regale.
Attrice fastosa (soprattutto vocalmente) riesce a esaltare il recitativo cavalliano a livelli che è davvero difficile ritrovare in altre interpreti attuali (fatta eccezione, forse, solo per Veronique Gens), tanto che con lei si capisce perfettamente perchè in questo opere il recitativo occupa il 90% del tempo.
Il climax che riesce a creare in "dunque sordo ai miei preghi" dal sussurro più alitato alla violenza più devastante è di quelli che resteranno per sempre nella memoria.
La Didone di Anna Bonitatibus è una prova acciecante di cosa sia l'arte dell'interpretazione operistica e cavalliana in particolare.
Ecco un estratto della produzione.
Salutoni,
Mat
Io, adoratore di Busenello e di tutta la drammaturgia veneziana del '600 (ambito in cui mi sono persino laureato), non potevo mancare la nuova produzione Caen-Champs Elysees di questo capolavoro (La Didone) creata all'alba del Dramma per Musica nel 1641, a firma del maggior librettista dell'epoca, lo stesso dell'Incoronazione di Poppea.
Tanto più che un grandissimo come sir William Christie realizzava qui il suo primo contatto con l'operismo di Cavalli e con un pluridecorato complesso orchestrale (Les Arts Florissants) nato più per gli splendori francesi che per l'apparente semplicità degli Italiani.
Forse per "ipercorrettismo" Christie risulta fin troppo sobrio nella sua direzione (come già Gardiner nella Poppea). Il continuo non è vivace, multiforme, improvvisatorio, orgiastico come con Jacobs, per intenderci. Nè gli accompagnamenti di ariosi e ritornelli hanno l'abbandono sentimentale di una Haim.
In compenso Christie scava sul suono con una pregnanza commovente: assapora la minima sonorità e ne ricava suggestioni fortissime.
Da un punto di vista emotivo, la dimensione tragica-sentimentale del terzo atto prevale - anche per merito degli interpreti - sul dinamismo ironico del secondo, qui effettivamente un po' slentato.
Anche il primo atto (ambientato a Troia durante il sacco della città) ha momenti indimenticabili - come la morte di Corebo - ma anche un senso di omogeneità eccessiva e a tratti persino di noia.
Nel complesso, comunque, un'esecuzione musicale fantastica, tra le migliori esperienze cavalliane della mia vita.
Malissimo invece la regia.
Clément Hervieu-Léger si è rivelato la scelta più infelice possibile immaginabile.
Cosa può aver spinto i direttori artistici (solitamente acuti e illuminati) a scritturare un celebre attore di prosa, poco più che trentenne, totalmente a digiuno di regia musicale, per un testo di simili difficoltà, apparentemente lontanissimo dal nostro gusto e dai nostri ritmi teatrali?
Il principio è comprensibile: il signore in oggetto è come attore specialista di teatro "classico" (famosa la sua interpretazione dell'Andromaca di Racine), inoltre adora il barocco che segue - in veste di pubblico - dalla più tenera infanzia. Basta questo a renderlo graditissimo a tutta la "fighetteria" intellettuale parigina, che affolla gli spettacoli di musica antica.
Il problema è che il Dramma per Musica veneziano (a parte il fatto di essere "per musica" e quindi con un uso dell'immagine completamente diverso da quello del teatro "di parola") è l'opposto stesso e dichiarato della Tragedie Classique francese!
Quest'ultima era "regolata" (ossia seguiva le disposizioni della poetica aristoteliche e la famose "unità" di azione, tempo, luogo); il primo invece apparteneva (insieme al teatro elisabettiano e a quello del Siglo de Oro) alle forme di teatro SREGOLATO, ossia che faceva perno della propria drammaturgia il contrasto, l'ossessiva contrapposizione di spazi, di registri, di epoche, di situazioni.
Se solo Hervieu-Léger si fosse preso il disturbo di leggere la prefazione al libretto dello stesso Busenello (che vanta ironicamente il fatto che, contro a ciò che vorrebbero i saggi, il suo libretto spazia per anni e anni e per luoghi lontanissimi) avrebbe capito che ambientare tutto il secondo e il terzo atto senza intervallo (oltre due ore di musica) in una stessa smunta e insignificante scenografia non è solo un modo per annoiare a morte il pubblico, ma proprio il peggior tradimento possibile alle caratteristiche di questo teatro e questa musica.
Ma no! - direbbe in coro tutta la fighetteria intellettuale parigina - La scena fissa e simbolica ti permette di concentrarti sulla musica!
"L'è comda!" (è comoda!) direbbero invece i più umili barocchisti delle mie parti. In questo modo infatti, oltre a rovinare l'effetto della Didone, il lavoro del regista e dello scenografo costano assai meno fatica che dannarsi l'anima (come sarebbe il loro lavoro) per valorizzare ogni singolo attimo dell'opera, ogni cambio scena, ogni violento contrasto di registro poetico.
Idem per i costumi...
In un'opera come questa che prevede più di venti personaggi (tutti importanti) siamo ahimé disposti a tollerare il fatto che uno stesso cantante ne affronti almeno due o tre!
E questo passi...
Se però tutti i cantanti indossano i soliti vestitini generici alla Chereau, non sarà più possibile distinguere un Dio da un pastore, un messaggero da un re.
Anche qui tutta la fighetteria parigina insorgerebbe: Ma no! E' giusto così! Liberare i personaggi dalle prigioni delle loro maschere! Vestirli genericamente per fare di essi portavoci dell'umanità e non macchiette teatrali vestite in modo buffo"
E ancora dalle mie parti risponderebbero "L'è comda!"... invece che dannarsi l'anima per far comprendere al pubblico - con le sole immagini - una storia complicatissima, piena di personaggi e situazioni contraddittorie, si piazzano tutti i personaggi lì a pontificare, vestiti allo stesso modo, senza minimamante sforzarsi di rendere chiaro un bel niente. Tanto per dirvi, quando appaiono i fantasmi (ce ne sono ben due nel corso dell'opera) essi entrano ed escono come niente fosse, semplicemente con una lucina più chiara addosso. Sfido chiunque a capire che si tratta di fantasmi.
Sono capace anche io, così, di fare il regista.
In compenso l'idolo della fighetteria si è ridestato al finale...
Quel meraviglioso, ironico, travolgente finale, da buon borghese coi piedi per terra che era Busenello, che scriveva i suoi capolavori per illuminati mercanti veneziani, in cui ...poche storie, Didone! Piantiamola con queste fanfaluche! Sei una regina: hai uno stato da mandare avanti! Che sono ste balle di suicidio e di amore infelice? In piedi! Al lavoro! Sposa il re Iarba, del paese confinante, e poche scemenze!
Un finale così è puro genio... ma non per la fighetteria parigina!
E' un tradimento del sublime Virgilio ed è un omaggio alla "cassetta" dell'happy ending!
E così, dopo non aver combinato assolutamente niente per tre ore di musica, Hervieu-Léger decide di concludere il duetto "matrimoniale" tra Didone e Iarba con lei tutta imbrattata di sangue (simbolo del fatto che la donna, benché morta dentro, deve adattarsi a essere strumento passivo nelle mani maschili).
Posso dirlo: una delle peggiori chiaviche di regia della mia vita.
Fortunatamente i cantanti sono stati molto bravi e con punte di eccellenza assoluta.
Magnifico, davvero, il baritenore Krešimir Špicer nella parte di Enea. Vocalmente impressionante (tranne un registro acuto un po' incerto, che comunque non è un problema in questo repertorio), tecnicamente strabiliante (l'intarsio di mezzevoci carezzevoli e caleidoscopici effetti di colore) e interpretativamente coinvolgente.
Eppure anche lui spariva di fronte alla Didone di Anna Bonitatibus.
Ancora una volta dobbiamo andare all'estero per poter apprezzare una delle migliori artiste italiane.
Giunta al vertice delle sue possibilità fisiche e artistiche, la Bonitatibus è un balsamo per gli occhi e le orecchie: appena entra in scena (al secondo atto) si misura lo stacco incolmabile fra lei e tutto il resto.
Tecnicamente sposa le conquiste del colorismo più raffinato, ma nondimeno resta ancorata a un vocalismo antico, che le permette gradazioni dinamiche amplissime e splendore di timbri. Nel suo vocabolario si alternano sfumature iridescenti alla Von Otter, aperture di suono sorvegliatissime e slanci di intensità davvero regale.
Attrice fastosa (soprattutto vocalmente) riesce a esaltare il recitativo cavalliano a livelli che è davvero difficile ritrovare in altre interpreti attuali (fatta eccezione, forse, solo per Veronique Gens), tanto che con lei si capisce perfettamente perchè in questo opere il recitativo occupa il 90% del tempo.
Il climax che riesce a creare in "dunque sordo ai miei preghi" dal sussurro più alitato alla violenza più devastante è di quelli che resteranno per sempre nella memoria.
La Didone di Anna Bonitatibus è una prova acciecante di cosa sia l'arte dell'interpretazione operistica e cavalliana in particolare.
Ecco un estratto della produzione.
Salutoni,
Mat