Francesca da Rimini (Zandonai)
Inviato: ven 30 mar 2012, 21:23
MONTECARLO 2012
Sono stato a vedere la nuova Francesca da Rimini al piccolo "palais Garnier"... non quello di Parigi, ma quello di Montecarlo, dove non ero mai stato.
Se è per questo non avevo mai sentito dal vivo nemmeno la Francesca, opera che amo molto.
D'altronde questa è una di quelle opere per cui non mi sposto se non ho la certezza di ascoltare una protagonista grande (ma non grande in senso assoluto... grande per questo specifico personaggio).
Non mi sono spostato, ad esempio, l'anno scorso per la Stoyanova a Parigi, cantante che grande lo è in senso lato, ma ben poco grande per la specifica suggestione del personaggio, il suo ondeggiare fra i vapori di un decadentismo sanguigno ed estetizzante.
E se non mi sono spostato per la Stoyanova, figuriamoci se l'avrei fatto per la Dessì!
Al contrario per una Westbroek in questo ruolo mi sono spostato eccome! Sarei forse andato fino a New York (dove la canterà l'anno prossimo, purtroppo in un allestimento ammuffito e con colleghi decisamente meno grandi)... Per fortuna Montecarlo mi ha offerto una sorta di "prova generale" del suo approccio a un ruolo come questo, fatto su misura per lei (le mie magre finanze ringraziano!).
Devo dire che sono favorevolemente colpito dalla politica del teatro monegasco.
Non hanno i mezzi per competere con le grandi produzioni europee... e per i divi massimi può essere frustrante esibirsi in un contesto abbastanza periferico (almeno rispetto ai grandi giri dell'operismo di grido) e davanti a una platea-miniatur. E quindi l'idea è quella di offrire a qualche nome grossissimo l'occasione di un debutto particolarmente impegnativo e rischioso, affrontato in un contesto rassicurante, con un teatro e una città (e un mare fantastico) a suo disposizione.
Pochi mesi prima era stata la volta di Schrott in Mefistofele; l'anno scorso (poi purtroppo saltò) di Alagna di Chénier.
Ora è la volta della grandiosa Westbroek in Francesca.
Ecco quel che si dice una scelta di campo intelligente e vincente. Il mondo operistico non si sposterebbe normalmente per un teatro che non ha i mezzi per lanciare produzioni costose e rivoluzionarie; ma per un super-debutto in tutta tranquillità sì! E' quel che ho fatto io e ne sono stato molto contento.
Semmai la direzione artistica di Montecarlo ha commesso un errore nell'assemblare il resto del cast.
Mi spiego: va bene che al centro di tutto ci sia la star (a cui versare una buona fetta del budget), ma il resto deve essere alla sua altezza a livello qualitativo!
Non si potrà chiamare divi altrettanto famosi, ok, ma questo non giustifica cattive scritture! Si può andare a setacciare fra i giovani, si può cercare il meglio fra i meno celebri, ma si deve far bene!
In fondo... è proprio in questo aspetto che si misura il talento di un ufficio casting! A chiamare Kaufmann in Siegmund non ci vuole un genio! Mentre trovare un Siegmund meraviglioso ancora giovane e poco costoso è proprio ciò che un grande direttore artistico dovrebbe saper fare.
E' proprio ciò che a Montecarlo non è successo: la Divina è stata veramente divina... in tutti i sensi. Ma il piedistallo su cui è stata posta era tutto storto e schricchiolante, col risultato che persino lei a tratti sembrava perdere l'equilibrio.
Davvero non capisco che senso avesse interpellare un direttore come Gelmetti... E' stata una direzione letteralmente sbrindellata, con giusto alcuni momenti poetici al primo atto, ma chiassosa, maldestra, greve per il resto (senza parlare dei soliti inammissibili tagli con cui la Tradizione si ostina a deturpare questa favolosa partitura). Le trasparenze impressionistiche, i cedimenti modali... ossia tutti gli aspetti che OGGI si dovrebbero valorizzare per far capire che questa musica non è affatto vecchio, venivano sacrificati a un melodizzare volgare e prevedibile.
Che grande idea è poi stata quella di affidare la regia a Louis Desiré! Costui - significativamente occupandosi anche di scene e costumi - mi ha ricordato perché negli anni '90 non ero più capace di tollerare nulla che portasse il nome di Pizzi.
Una scenografia totalmente spoglia (di quelle che fanno risparmiare) ma con un simbolone grande così che ingombra la scena, tanto facile quanto gratuito.
In questo caso il simbolo era una manona enorme... ora piegata in basso (perché preme sulla protagonista), ora aperta verso l'alto (per accogliere i di lei torbidi amori).
Tanta banalità e pochezza, come ci si può ben immaginare, faceva il paio con una recitazione a casaccio, movimenti convenzionali e fallimentari.
Non un momento di poesia o di costruzione del movimento sulla musica. Uno schifo che a tratti ha rischiato di trascinare la stessa Westbroek (che pure recita come una star di Holliwood) in questa melma di banalità.
Il resto del cast era molto sbagliato... e passi per le quattro damigelle stonate e periclitanti, passi per la Brioli (che si è fatta annunciare malata) in terribili difficoltà per Samaritana.
Gazale è un po' al limite vocalmente per Gianciotto; la sua sarebbe una vocalità (e una personalità) meno bestiale di quel che si richiede al personaggio.
Non di meno... non è sbraitando fino a farsi saltare le corde vocali che si risolve il problema.
Avrebbe potuto dare una lettura più fragile e umana del personaggio, ma per far questo ci vuole una personalità che lui non ha.
Se c'è una cosa che Paolo il bello dovrebbe avere... è di essere bello e magari anche un po' giovane.
E poi (ma questo pare che nessuno lo voglia capire) dovrebbe avere essere acuto e morbido abbastanza da sostenere una tessitura davvero spericolata come la sua (e non solo di forza).
Todorovich non è affatto quel pessimo cantante che qualcuno vorrebbe: è vero! E' il classico strillone da opere di repertorio... ma anche questa tipologia nell'opera ci vuole... e se proprio deve essere... meglio lui di Martinucci! Almeno Todorovich sa realmente imporsi in scena, è capace di sfumare, sa recitare con efficacia.
Poi, lo so benissimo, certi suoi acuti dardeggianti ma lanciati con sovrano sprezzo dell'intonazione sono uno strazio per le orecchie; non di meno devo riconoscere che ciò che gli ho sentito fare dal vivo (un Calaf ad Anversa con la regia di Carsen, un Pollione pressoché perfetto - se tagliamo la cabaletta - con Edita Gruberova a Monaco e una Tosca con la Michael) meritava più lodi che disprezzo.
Detto questo... di Paolo il bello non aveva la voce (troppo baritonale), non l'aspetto (tutto fuorché bello), non la tecnica (troppo declamatorio, invece che floreale e vocalistico), non l'età (calcolate un venticinque anni in più di quelli che dovrabbe avere il personaggio).
La sua prestazione è risultata non pessima, ma anche peggio: illogica, assurda!
L'unico che ha potuto dire qualcosa di interessante è stato il bravissimo tenore americano William Joyner (che ascoltavo dal vivo per la terza volta, dopo Thais a Venezia e le Fate con Minkowski allo Chatelet) ma nemmeno il suo Malatestino si è veramente imposto, al di fuori delle smorfie da cattivo e delle frasaccie urlate a perdifiato.
Tengo per ultima le cose belle, anzi favolose dello spettacolo.
La prima è stato il teatro.
Dire bellissimo è dire poco: un capolavoro di barocco, pieno di stucchi, sagomature e riflessi, di una bellezza da togliere il fiato e per nulla inferiore all'altro - più noto - teatro di Garnier: l'Opéra di Parigi... con la differenza però che questo è minuscono; praticamente una bomboniera in cui possono trovare posto non più di 400 - 500 persone.
Sorprendentemente, per un teatro così piccolo, la fossa per l'orchestra è molto vasta, cosa che - all'occorrenza - permette di allestire anche opere non propriamente cameristiche (nemmeno l'orchestra di Zandonai è tanto piccolina).
Non vi dico cos'è l'acustica! A parte le ridotte dimensioni e la vicinanza agli artisti (io poi ero in terza fila di platea), con tutte quelle sagomature lignee, quelle concavità e rientranze, quegli stucchi che erompono da ogni parte, potrete immaginare un suono di altissima qualità.
Quindi non solo ho speso diecimila volta meno di quel che mi sarebbe costata la Westbroek al Met, ma ho anche potuto gustarmi i più impercettibili sussurri e vederne la mimica (grandiosa) meglio che in un CD.
Il secondo miracolo è lei: la Francesca da Rimini di Eva Maria Westbroek.
Con lei abbiamo trovato la prima vera, completa Francesca dai tempi di Magda Olivero (1959) e Leyla Gencer (1961), anche se quest'ultima resta tuttora inavvicinabile.
La Westbroek infatti ben più della Scotto e persino più della Kabaywanska riesce a cogliere l'equilibrio difficilissimo e precario tra cascami verbali e post-romantici e l'irruente verità del personaggio.
La sua capacità di esprimere il candore e la femminilità più fragile, cedevole, quasi infantile si coniuga a una sensualità scultorea, con una naturalezza a cui non è possibile non credere.
Tecnicamente, lo sappiamo, non è una vocalista, quindi la linea strumentale e inebriante di una Gencer deve qui cedere il passo a un canto più teso e spezzato, ma la voce è talmente sinuosa e rigogliosa da ricordare una Crespin dei grandi giorni; il timbro è vellutato e avvolgente, il colore scuro, il pianissimo alitato come una carezza (quando dice "in questa fresca luce che alfine mi disseta" i suoni che distilla hanno del paradisiaco).
Il limite c'è... e si sapeva.
La Westbroek ha ormai l'estensione e il baricentro di un mezzosoprano: pertanto quando la scrittura varca il la naturale, la voce continua a esserci... i si naturali numeroissimi e persino il do sopracuto rispondono all'appello e si impongono (scena della battaglia) con vigore, ma si tratta di note al di fuori del raggio di controllo della grande cantante (un po' come avveniva per la Tebaldi, la Crespin e la Normann).
Ci sono ma persino l'espressione della cantante cambia: si irrigidisce nello sforzo di emetterli e tutta quella poesia di sussurri giustapposti, di morbidezze estenuate viene meno.
A parte questo, la Westbroek ha trovato in Francesca una delle sue incarnazioni più gigantesche.
Finalmente con lei la sensualità non è posa "dusiana" ma sostanza erotica che si fa suono, la forza del sentimento non è smania verista, l'eloquio antico non è compiacimento granguignolesco... la naturalezza la rende vera, irresistbile, bellissima.
Un'interpretazione da annali dell'opera.
Anche se il finale non è stato il momento migliore (i prodigi veri sono stati al primo e secondo atto), questo è l'unico frammento che ho trovato su Youtube.
La parte audio non rende conto della cascata di armonici del suo registro centrale, ma meglio di niente.
Salutoni,
Mat
Sono stato a vedere la nuova Francesca da Rimini al piccolo "palais Garnier"... non quello di Parigi, ma quello di Montecarlo, dove non ero mai stato.
Se è per questo non avevo mai sentito dal vivo nemmeno la Francesca, opera che amo molto.
D'altronde questa è una di quelle opere per cui non mi sposto se non ho la certezza di ascoltare una protagonista grande (ma non grande in senso assoluto... grande per questo specifico personaggio).
Non mi sono spostato, ad esempio, l'anno scorso per la Stoyanova a Parigi, cantante che grande lo è in senso lato, ma ben poco grande per la specifica suggestione del personaggio, il suo ondeggiare fra i vapori di un decadentismo sanguigno ed estetizzante.
E se non mi sono spostato per la Stoyanova, figuriamoci se l'avrei fatto per la Dessì!
Al contrario per una Westbroek in questo ruolo mi sono spostato eccome! Sarei forse andato fino a New York (dove la canterà l'anno prossimo, purtroppo in un allestimento ammuffito e con colleghi decisamente meno grandi)... Per fortuna Montecarlo mi ha offerto una sorta di "prova generale" del suo approccio a un ruolo come questo, fatto su misura per lei (le mie magre finanze ringraziano!).
Devo dire che sono favorevolemente colpito dalla politica del teatro monegasco.
Non hanno i mezzi per competere con le grandi produzioni europee... e per i divi massimi può essere frustrante esibirsi in un contesto abbastanza periferico (almeno rispetto ai grandi giri dell'operismo di grido) e davanti a una platea-miniatur. E quindi l'idea è quella di offrire a qualche nome grossissimo l'occasione di un debutto particolarmente impegnativo e rischioso, affrontato in un contesto rassicurante, con un teatro e una città (e un mare fantastico) a suo disposizione.
Pochi mesi prima era stata la volta di Schrott in Mefistofele; l'anno scorso (poi purtroppo saltò) di Alagna di Chénier.
Ora è la volta della grandiosa Westbroek in Francesca.
Ecco quel che si dice una scelta di campo intelligente e vincente. Il mondo operistico non si sposterebbe normalmente per un teatro che non ha i mezzi per lanciare produzioni costose e rivoluzionarie; ma per un super-debutto in tutta tranquillità sì! E' quel che ho fatto io e ne sono stato molto contento.
Semmai la direzione artistica di Montecarlo ha commesso un errore nell'assemblare il resto del cast.
Mi spiego: va bene che al centro di tutto ci sia la star (a cui versare una buona fetta del budget), ma il resto deve essere alla sua altezza a livello qualitativo!
Non si potrà chiamare divi altrettanto famosi, ok, ma questo non giustifica cattive scritture! Si può andare a setacciare fra i giovani, si può cercare il meglio fra i meno celebri, ma si deve far bene!
In fondo... è proprio in questo aspetto che si misura il talento di un ufficio casting! A chiamare Kaufmann in Siegmund non ci vuole un genio! Mentre trovare un Siegmund meraviglioso ancora giovane e poco costoso è proprio ciò che un grande direttore artistico dovrebbe saper fare.
E' proprio ciò che a Montecarlo non è successo: la Divina è stata veramente divina... in tutti i sensi. Ma il piedistallo su cui è stata posta era tutto storto e schricchiolante, col risultato che persino lei a tratti sembrava perdere l'equilibrio.
Davvero non capisco che senso avesse interpellare un direttore come Gelmetti... E' stata una direzione letteralmente sbrindellata, con giusto alcuni momenti poetici al primo atto, ma chiassosa, maldestra, greve per il resto (senza parlare dei soliti inammissibili tagli con cui la Tradizione si ostina a deturpare questa favolosa partitura). Le trasparenze impressionistiche, i cedimenti modali... ossia tutti gli aspetti che OGGI si dovrebbero valorizzare per far capire che questa musica non è affatto vecchio, venivano sacrificati a un melodizzare volgare e prevedibile.
Che grande idea è poi stata quella di affidare la regia a Louis Desiré! Costui - significativamente occupandosi anche di scene e costumi - mi ha ricordato perché negli anni '90 non ero più capace di tollerare nulla che portasse il nome di Pizzi.
Una scenografia totalmente spoglia (di quelle che fanno risparmiare) ma con un simbolone grande così che ingombra la scena, tanto facile quanto gratuito.
In questo caso il simbolo era una manona enorme... ora piegata in basso (perché preme sulla protagonista), ora aperta verso l'alto (per accogliere i di lei torbidi amori).
Tanta banalità e pochezza, come ci si può ben immaginare, faceva il paio con una recitazione a casaccio, movimenti convenzionali e fallimentari.
Non un momento di poesia o di costruzione del movimento sulla musica. Uno schifo che a tratti ha rischiato di trascinare la stessa Westbroek (che pure recita come una star di Holliwood) in questa melma di banalità.
Il resto del cast era molto sbagliato... e passi per le quattro damigelle stonate e periclitanti, passi per la Brioli (che si è fatta annunciare malata) in terribili difficoltà per Samaritana.
Gazale è un po' al limite vocalmente per Gianciotto; la sua sarebbe una vocalità (e una personalità) meno bestiale di quel che si richiede al personaggio.
Non di meno... non è sbraitando fino a farsi saltare le corde vocali che si risolve il problema.
Avrebbe potuto dare una lettura più fragile e umana del personaggio, ma per far questo ci vuole una personalità che lui non ha.
Se c'è una cosa che Paolo il bello dovrebbe avere... è di essere bello e magari anche un po' giovane.
E poi (ma questo pare che nessuno lo voglia capire) dovrebbe avere essere acuto e morbido abbastanza da sostenere una tessitura davvero spericolata come la sua (e non solo di forza).
Todorovich non è affatto quel pessimo cantante che qualcuno vorrebbe: è vero! E' il classico strillone da opere di repertorio... ma anche questa tipologia nell'opera ci vuole... e se proprio deve essere... meglio lui di Martinucci! Almeno Todorovich sa realmente imporsi in scena, è capace di sfumare, sa recitare con efficacia.
Poi, lo so benissimo, certi suoi acuti dardeggianti ma lanciati con sovrano sprezzo dell'intonazione sono uno strazio per le orecchie; non di meno devo riconoscere che ciò che gli ho sentito fare dal vivo (un Calaf ad Anversa con la regia di Carsen, un Pollione pressoché perfetto - se tagliamo la cabaletta - con Edita Gruberova a Monaco e una Tosca con la Michael) meritava più lodi che disprezzo.
Detto questo... di Paolo il bello non aveva la voce (troppo baritonale), non l'aspetto (tutto fuorché bello), non la tecnica (troppo declamatorio, invece che floreale e vocalistico), non l'età (calcolate un venticinque anni in più di quelli che dovrabbe avere il personaggio).
La sua prestazione è risultata non pessima, ma anche peggio: illogica, assurda!
L'unico che ha potuto dire qualcosa di interessante è stato il bravissimo tenore americano William Joyner (che ascoltavo dal vivo per la terza volta, dopo Thais a Venezia e le Fate con Minkowski allo Chatelet) ma nemmeno il suo Malatestino si è veramente imposto, al di fuori delle smorfie da cattivo e delle frasaccie urlate a perdifiato.
Tengo per ultima le cose belle, anzi favolose dello spettacolo.
La prima è stato il teatro.
Dire bellissimo è dire poco: un capolavoro di barocco, pieno di stucchi, sagomature e riflessi, di una bellezza da togliere il fiato e per nulla inferiore all'altro - più noto - teatro di Garnier: l'Opéra di Parigi... con la differenza però che questo è minuscono; praticamente una bomboniera in cui possono trovare posto non più di 400 - 500 persone.
Sorprendentemente, per un teatro così piccolo, la fossa per l'orchestra è molto vasta, cosa che - all'occorrenza - permette di allestire anche opere non propriamente cameristiche (nemmeno l'orchestra di Zandonai è tanto piccolina).
Non vi dico cos'è l'acustica! A parte le ridotte dimensioni e la vicinanza agli artisti (io poi ero in terza fila di platea), con tutte quelle sagomature lignee, quelle concavità e rientranze, quegli stucchi che erompono da ogni parte, potrete immaginare un suono di altissima qualità.
Quindi non solo ho speso diecimila volta meno di quel che mi sarebbe costata la Westbroek al Met, ma ho anche potuto gustarmi i più impercettibili sussurri e vederne la mimica (grandiosa) meglio che in un CD.
Il secondo miracolo è lei: la Francesca da Rimini di Eva Maria Westbroek.
Con lei abbiamo trovato la prima vera, completa Francesca dai tempi di Magda Olivero (1959) e Leyla Gencer (1961), anche se quest'ultima resta tuttora inavvicinabile.
La Westbroek infatti ben più della Scotto e persino più della Kabaywanska riesce a cogliere l'equilibrio difficilissimo e precario tra cascami verbali e post-romantici e l'irruente verità del personaggio.
La sua capacità di esprimere il candore e la femminilità più fragile, cedevole, quasi infantile si coniuga a una sensualità scultorea, con una naturalezza a cui non è possibile non credere.
Tecnicamente, lo sappiamo, non è una vocalista, quindi la linea strumentale e inebriante di una Gencer deve qui cedere il passo a un canto più teso e spezzato, ma la voce è talmente sinuosa e rigogliosa da ricordare una Crespin dei grandi giorni; il timbro è vellutato e avvolgente, il colore scuro, il pianissimo alitato come una carezza (quando dice "in questa fresca luce che alfine mi disseta" i suoni che distilla hanno del paradisiaco).
Il limite c'è... e si sapeva.
La Westbroek ha ormai l'estensione e il baricentro di un mezzosoprano: pertanto quando la scrittura varca il la naturale, la voce continua a esserci... i si naturali numeroissimi e persino il do sopracuto rispondono all'appello e si impongono (scena della battaglia) con vigore, ma si tratta di note al di fuori del raggio di controllo della grande cantante (un po' come avveniva per la Tebaldi, la Crespin e la Normann).
Ci sono ma persino l'espressione della cantante cambia: si irrigidisce nello sforzo di emetterli e tutta quella poesia di sussurri giustapposti, di morbidezze estenuate viene meno.
A parte questo, la Westbroek ha trovato in Francesca una delle sue incarnazioni più gigantesche.
Finalmente con lei la sensualità non è posa "dusiana" ma sostanza erotica che si fa suono, la forza del sentimento non è smania verista, l'eloquio antico non è compiacimento granguignolesco... la naturalezza la rende vera, irresistbile, bellissima.
Un'interpretazione da annali dell'opera.
Anche se il finale non è stato il momento migliore (i prodigi veri sono stati al primo e secondo atto), questo è l'unico frammento che ho trovato su Youtube.
La parte audio non rende conto della cascata di armonici del suo registro centrale, ma meglio di niente.
Salutoni,
Mat