Il Giocatore (Prokof'ev)
Inviato: mer 03 mar 2010, 13:59
Carissimi,
anche per le (giustificate) insistenze di Vit - ma anche perchè di spettacolo bellissimo si tratta - mi accingo a raccontarvi del Giocatore, anzi del "Gambler" di Prokof'ev andato in scena al Covent Garden.
La prima cosa sorprendente, già lo sapete, è stata la scelta di eseguirlo in lingua inglese. Il Covent Garden non è nuovo a queste stranezze con le opere del '900 dell'Est: anni fa vidi una meravigliosa, indimenticabile "Piccola Volpe Astuta" diretta da Gardiner, a sua volta in inglese.
Se non fosse per questa scelta, oltremodo discutibile, lo spettacolo mi è parso più riuscito e coinvolgente dell'altra produzione che ultimamente ha circolato: quella di Baremboim e Cherniakov berlinese-milanese.
Mentre quest'ultima puntava dovstojevskianamente a una cupezza seriosa e psicanalitica (d'effetto, certamente pregevole, ma anche superata), Jones al suo solito scatena l'umorismo, la contraddizione, la corsa e lo sberluccicare delle luci.
Il riferimento di Jones pare essere quello delle commedie americane degli anni '50 e '60, ambientate nel pieno della guerra fredda (a Vienna o Berlino), che ironizzavano su amori e tensioni tra l'una e l'altra parte.
E così la città ottocentesca inventata da Dostojevskij, la famosa"Roulettenburg", diventa una città mitteleuropea sul limite della cortina di ferro, dove l'ossessione del gioco e del denaro che scorre e svanisce, diventano la lusinga che l'Occidente esercita sulla cultura sovietica (non solo denaro, ma anche democrazia, libertà, voglia di divertirsi, enormi cartelloni pubblicitari, e ancora contrapposizioni sociali, avidità, superficialità).
E così Paulina, una supersonica Angela Denoke, diventa Ninotchka, vestita e pettinata come la Garbo, e anche lei - come la Garbo - si lascia andare a una risata gioiosa, splendida, liberatoria al primo atto.
Le sue contraddizioni nevrotiche assumono in questa produzione un senso speciale: è la donna che non sa scegliere fra i "valori" della sua rigidità sovietica (da una parte) e l'ansia di libertà e piacere che l'occidente (i soldi, l'amore, ecc...) esercitano su di lei.
Come sempre strepitosa attrice e declamatrice, la Denoke trova in Paulina (anzi, in questa Paulina-Garbo, altera e distante) uno dei grandi personaggi della sua carriera.
Ma anche Roberto Saccà, tenore austro-italiano oggi lanciatissimo, risulta sorprendentemente efficace nelle vesti di Alexeij, il protagonista. Dico sorprendentemente senza intenti polemici: che fosse un valido artista, rigoroso e volenteroso, lo sapevo, avendolo visto varie volte in scena.
Ma che si riuscisse a calare tanto bene in questo personaggio tipicamente "jonsiano" di intellettualino instabile, che lavora per i "capitalisti", con un completo giacca e cravatta, ma che mantiene sotto la sua camicia tradizionale russa. Anche vocalmente Saccà si fa valere: si impossessa del declamato sconnesso della parte con vigore e simpatia, e alla fine ne esce un ritratto estremamente vivace e plausibile.
Se esistessero gli "oscar" per i cantanti non-protagonisti, quest'anno se lo aggiudicherebbe Kurt Streit, nelle vesti del Marchese, l'occidentale sofisticato, di fascino parigino, maturo ma bello e atletico come un attore di holliwood, sempre elegantissimo ed energico: un Cary Grant biondo e cinico, ambizioso, sottile, diplomatico ma anche forte e sprezzante.
Non c'è nulla che mi conquisti di più che vedere un grande artista alle prese con un ruolo se non "piccolo", sicuramente "medio". Alle prime ero rimasto perfino sopreso che un cantante della levatura di Streit, sapiente britteniano e liederista, senza ombra di dubbio il migliore Idomeneo degli ultimi quindici anni, fosse scritturato per un ruolo tutto sommato di contorno.
Ma il bello è proprio questo: che nelle sue mani il Marchese non era più di contorno, anzi... diventava uno dei poli della drammaturgia. Su di lui Jones lavora con accanimento, quasi a farne il simbolo del gigantesco fascino di tutto l'Occidente, glorie e malinconie comprese.
Dal punto di vista vocale, il ruolo ha inoltre valorizzato l'attuale vocalità del già maturo artista, lo squillo cristallino del centro e la finezza dei colori, ben di più dei suoi recenti (ma tutto sommato fascinosi) Giasoni ed Enea.
Insomma... questo Marchese di Streit valeva da solo il viaggio a Londra.
Altra chicca la Babulenka della Bikley.
Dentro di me soffrivo un po' che il Covent Garden non avesse chiamato per il ruolo la Silja (che si sarebbe trovata nel ruolo molto meglio che nella strega dell'Hansel e Gretel dell'anno scorso). Sicuramente la Silja si sarebbe trovata benissimo con il declamato sferzante e centro-acuto della parte.
Inoltre avrebbe impresso alla mitica e vetero-aristocratica nonna un'autorevolezza che la Bikley non possiede in alcun modo.
Però quest'ultima riesce comunque a comporre un ritratto delizioso e tipicamente alla "Jones", che da queste terribili vecchie dovstojevskjane (come la contessa della dama di Picche) preferisce ricavare creaturine del tutto anti-divistiche, molto lontane dalle pesanti "damone" che siamo soliti vedere: un po' patetiche, piccole e tozze, maldestre e dedite alla vodka.
Forse la Silja sarebbe risultata troppo grande per la vecchietta sciocchina e tenerissima che ne ricava Jones.
Tengo per ultimo Tomlinson, insistentemente richiesto da Vit, il cui generale si impone come era prevedibile.
Però, come avevo già detto in altro thread, la sua tendenza al macchiettismo è ormai diventata prevaricante, rispetto alla sobrietà e profondità che aveva qualche anno fa.
Jones ha la sua parte di colpa: nel senso che - coerentemente col suo riferimento alla "commedia americana" - insiste molto sulla grossolanità prettamente comica del ruolo, ne fa un personaggio grottesco e risibile (che, alla constatazione della propria rovina, viene portato via in camicia di forza).
Vocalmente Tomlinson, ad onta degli anni, mantiene il più bello, incredibile, colorato, variegato stile declamatorio che sia possibile sentire.
E' semplicemente incredibile il modo in cui colora ogni suono e fa letteralmente esplodere le vocali con effetti espressivi geniali.
Solo il registro acuto (che risulta oggi come infossato) accusa i segni del tempo.
Salutoni,
mat
anche per le (giustificate) insistenze di Vit - ma anche perchè di spettacolo bellissimo si tratta - mi accingo a raccontarvi del Giocatore, anzi del "Gambler" di Prokof'ev andato in scena al Covent Garden.
La prima cosa sorprendente, già lo sapete, è stata la scelta di eseguirlo in lingua inglese. Il Covent Garden non è nuovo a queste stranezze con le opere del '900 dell'Est: anni fa vidi una meravigliosa, indimenticabile "Piccola Volpe Astuta" diretta da Gardiner, a sua volta in inglese.
Se non fosse per questa scelta, oltremodo discutibile, lo spettacolo mi è parso più riuscito e coinvolgente dell'altra produzione che ultimamente ha circolato: quella di Baremboim e Cherniakov berlinese-milanese.
Mentre quest'ultima puntava dovstojevskianamente a una cupezza seriosa e psicanalitica (d'effetto, certamente pregevole, ma anche superata), Jones al suo solito scatena l'umorismo, la contraddizione, la corsa e lo sberluccicare delle luci.
Il riferimento di Jones pare essere quello delle commedie americane degli anni '50 e '60, ambientate nel pieno della guerra fredda (a Vienna o Berlino), che ironizzavano su amori e tensioni tra l'una e l'altra parte.
E così la città ottocentesca inventata da Dostojevskij, la famosa"Roulettenburg", diventa una città mitteleuropea sul limite della cortina di ferro, dove l'ossessione del gioco e del denaro che scorre e svanisce, diventano la lusinga che l'Occidente esercita sulla cultura sovietica (non solo denaro, ma anche democrazia, libertà, voglia di divertirsi, enormi cartelloni pubblicitari, e ancora contrapposizioni sociali, avidità, superficialità).
E così Paulina, una supersonica Angela Denoke, diventa Ninotchka, vestita e pettinata come la Garbo, e anche lei - come la Garbo - si lascia andare a una risata gioiosa, splendida, liberatoria al primo atto.
Le sue contraddizioni nevrotiche assumono in questa produzione un senso speciale: è la donna che non sa scegliere fra i "valori" della sua rigidità sovietica (da una parte) e l'ansia di libertà e piacere che l'occidente (i soldi, l'amore, ecc...) esercitano su di lei.
Come sempre strepitosa attrice e declamatrice, la Denoke trova in Paulina (anzi, in questa Paulina-Garbo, altera e distante) uno dei grandi personaggi della sua carriera.
Ma anche Roberto Saccà, tenore austro-italiano oggi lanciatissimo, risulta sorprendentemente efficace nelle vesti di Alexeij, il protagonista. Dico sorprendentemente senza intenti polemici: che fosse un valido artista, rigoroso e volenteroso, lo sapevo, avendolo visto varie volte in scena.
Ma che si riuscisse a calare tanto bene in questo personaggio tipicamente "jonsiano" di intellettualino instabile, che lavora per i "capitalisti", con un completo giacca e cravatta, ma che mantiene sotto la sua camicia tradizionale russa. Anche vocalmente Saccà si fa valere: si impossessa del declamato sconnesso della parte con vigore e simpatia, e alla fine ne esce un ritratto estremamente vivace e plausibile.
Se esistessero gli "oscar" per i cantanti non-protagonisti, quest'anno se lo aggiudicherebbe Kurt Streit, nelle vesti del Marchese, l'occidentale sofisticato, di fascino parigino, maturo ma bello e atletico come un attore di holliwood, sempre elegantissimo ed energico: un Cary Grant biondo e cinico, ambizioso, sottile, diplomatico ma anche forte e sprezzante.
Non c'è nulla che mi conquisti di più che vedere un grande artista alle prese con un ruolo se non "piccolo", sicuramente "medio". Alle prime ero rimasto perfino sopreso che un cantante della levatura di Streit, sapiente britteniano e liederista, senza ombra di dubbio il migliore Idomeneo degli ultimi quindici anni, fosse scritturato per un ruolo tutto sommato di contorno.
Ma il bello è proprio questo: che nelle sue mani il Marchese non era più di contorno, anzi... diventava uno dei poli della drammaturgia. Su di lui Jones lavora con accanimento, quasi a farne il simbolo del gigantesco fascino di tutto l'Occidente, glorie e malinconie comprese.
Dal punto di vista vocale, il ruolo ha inoltre valorizzato l'attuale vocalità del già maturo artista, lo squillo cristallino del centro e la finezza dei colori, ben di più dei suoi recenti (ma tutto sommato fascinosi) Giasoni ed Enea.
Insomma... questo Marchese di Streit valeva da solo il viaggio a Londra.
Altra chicca la Babulenka della Bikley.
Dentro di me soffrivo un po' che il Covent Garden non avesse chiamato per il ruolo la Silja (che si sarebbe trovata nel ruolo molto meglio che nella strega dell'Hansel e Gretel dell'anno scorso). Sicuramente la Silja si sarebbe trovata benissimo con il declamato sferzante e centro-acuto della parte.
Inoltre avrebbe impresso alla mitica e vetero-aristocratica nonna un'autorevolezza che la Bikley non possiede in alcun modo.
Però quest'ultima riesce comunque a comporre un ritratto delizioso e tipicamente alla "Jones", che da queste terribili vecchie dovstojevskjane (come la contessa della dama di Picche) preferisce ricavare creaturine del tutto anti-divistiche, molto lontane dalle pesanti "damone" che siamo soliti vedere: un po' patetiche, piccole e tozze, maldestre e dedite alla vodka.
Forse la Silja sarebbe risultata troppo grande per la vecchietta sciocchina e tenerissima che ne ricava Jones.
Tengo per ultimo Tomlinson, insistentemente richiesto da Vit, il cui generale si impone come era prevedibile.
Però, come avevo già detto in altro thread, la sua tendenza al macchiettismo è ormai diventata prevaricante, rispetto alla sobrietà e profondità che aveva qualche anno fa.
Jones ha la sua parte di colpa: nel senso che - coerentemente col suo riferimento alla "commedia americana" - insiste molto sulla grossolanità prettamente comica del ruolo, ne fa un personaggio grottesco e risibile (che, alla constatazione della propria rovina, viene portato via in camicia di forza).
Vocalmente Tomlinson, ad onta degli anni, mantiene il più bello, incredibile, colorato, variegato stile declamatorio che sia possibile sentire.
E' semplicemente incredibile il modo in cui colora ogni suono e fa letteralmente esplodere le vocali con effetti espressivi geniali.
Solo il registro acuto (che risulta oggi come infossato) accusa i segni del tempo.
Salutoni,
mat