La Sonnambula

Lo spettacolo di Marelli, con la sua lentezza e goffaggine, conferma la sensazione che Joel, per l'Opéra di Parigi, sia andato a ripescare gli spettacoli più loffi e smammolati d'Europa.
Il Wertheraccio veniva da Londra, questa Sonnambula parrocchiale veniva da Vienna (2001).
lA contestualizzazione? Un po' scema, ma carina.
Un sanatorio da "Montagna incantata" con le sdraie alle terrazze, il salone da pranzo per gli "ospiti", le alpi biancheggianti all'orizzonte.
Amina una domestica della clinica di lusso... Elvino il pianista degli intrattenimenti.
Divertente ...per i primi cinque minuti.
Poi tutti si dimenticano di dove sono e ricominciano a recitare (anzi a non recitare) come in ogni Sonnambula tradizionale.
E come lo spettro che atterrisce il villaggio, risorge Pizzi dietro a ogni posa, a ogni duetto, ogni concertato.
Camarena ha voce bella, estesa, squillante, facile al pianissimo, ma non ha alcuna personalità.
Su Pertusi taccio... il suo fiacchissimo senso teatrale e la sua prevedibilità spocchiosa ne fanno una zeppa pesante persino in un'opera come questa.
La noia si taglie a fette e ad essa contribuisce egregiamente un Pidò di una lentezza e monocromia desolante.
La Dessay entra come la salvatrice della patria.
E deve combattere con tutte le sue forze (che sono tante) ma l'impresa è particolarmente ardua.
Perché già dovrebbe combattere con una voce che da sempre è troppo acuta per questo ruolo, ma che oggi è intaccata da alcune fragilità al centro.
Già dovrebbe combattere con un sopracuto che è ancora splendente e trionfante (parlo del mi bemolle) solo se lanciato a piena voce.
In più deve combattere con uno spettacolo in cui tutti sono inerti, spaesati, annoiati, a partire del pubblico.
E allora tira fuori le unghie e si rivela per quello che è: un vulcano di idee, un crogiolo di colori, una personalità talmente prorompente da trascinarsi dietro tutti e far progressivamente vorticare uno spettacole che sembrava irrimediabilmente statico.
Dalla metà del primo atto prende in pugno la situazione e a partire dal secondo la sera è salva.
Dal fondo dell'incredibile tavolozza, la Dessay dispiega i colori più vari e stralunati (quei colori per cui gli ingenui la accusano di "cattiva tecnica"). I recitativi si aninimano, si contorcono: la pazzia scintilla di perle di luce e tormentosi affondi d'orrore.
IL "non credea" è uno dei momenti più alti della mia storia (trentennale) di ascoltatore: illuminata di blu, al centro della scena, la Dessay esala filature smaterializzate, legati eterei, aliti d'argento che sembrano liquefarsi nella notte... il ritmo però è talmente netto, fermo e inesorabile da sembrare "callassiano".
Il coup-de-theatre della cabaletta (con lei che esplode da dietro il sipario in abito da sera "rosso" e inneggia al suo ruolo di diva) vince definitiviamente la partita. Crolla il teatro. Un tripudio.
Anche se resto legato alla rivoluzione ipercolorista della Bartoli e alla ridefinizione vocale da lei proposta (il mezzosoprano acuto), la Dessay è un'artista di grandezza e incisività da costringermi a riconoscere ancora una volta in lei (ma non per molto temo) l'Amina di riferimento di oggi.
Salutoni,
Mat
Il Wertheraccio veniva da Londra, questa Sonnambula parrocchiale veniva da Vienna (2001).
lA contestualizzazione? Un po' scema, ma carina.
Un sanatorio da "Montagna incantata" con le sdraie alle terrazze, il salone da pranzo per gli "ospiti", le alpi biancheggianti all'orizzonte.
Amina una domestica della clinica di lusso... Elvino il pianista degli intrattenimenti.
Divertente ...per i primi cinque minuti.
Poi tutti si dimenticano di dove sono e ricominciano a recitare (anzi a non recitare) come in ogni Sonnambula tradizionale.
E come lo spettro che atterrisce il villaggio, risorge Pizzi dietro a ogni posa, a ogni duetto, ogni concertato.
Camarena ha voce bella, estesa, squillante, facile al pianissimo, ma non ha alcuna personalità.
Su Pertusi taccio... il suo fiacchissimo senso teatrale e la sua prevedibilità spocchiosa ne fanno una zeppa pesante persino in un'opera come questa.
La noia si taglie a fette e ad essa contribuisce egregiamente un Pidò di una lentezza e monocromia desolante.
La Dessay entra come la salvatrice della patria.
E deve combattere con tutte le sue forze (che sono tante) ma l'impresa è particolarmente ardua.
Perché già dovrebbe combattere con una voce che da sempre è troppo acuta per questo ruolo, ma che oggi è intaccata da alcune fragilità al centro.
Già dovrebbe combattere con un sopracuto che è ancora splendente e trionfante (parlo del mi bemolle) solo se lanciato a piena voce.
In più deve combattere con uno spettacolo in cui tutti sono inerti, spaesati, annoiati, a partire del pubblico.
E allora tira fuori le unghie e si rivela per quello che è: un vulcano di idee, un crogiolo di colori, una personalità talmente prorompente da trascinarsi dietro tutti e far progressivamente vorticare uno spettacole che sembrava irrimediabilmente statico.
Dalla metà del primo atto prende in pugno la situazione e a partire dal secondo la sera è salva.
Dal fondo dell'incredibile tavolozza, la Dessay dispiega i colori più vari e stralunati (quei colori per cui gli ingenui la accusano di "cattiva tecnica"). I recitativi si aninimano, si contorcono: la pazzia scintilla di perle di luce e tormentosi affondi d'orrore.
IL "non credea" è uno dei momenti più alti della mia storia (trentennale) di ascoltatore: illuminata di blu, al centro della scena, la Dessay esala filature smaterializzate, legati eterei, aliti d'argento che sembrano liquefarsi nella notte... il ritmo però è talmente netto, fermo e inesorabile da sembrare "callassiano".
Il coup-de-theatre della cabaletta (con lei che esplode da dietro il sipario in abito da sera "rosso" e inneggia al suo ruolo di diva) vince definitiviamente la partita. Crolla il teatro. Un tripudio.
Anche se resto legato alla rivoluzione ipercolorista della Bartoli e alla ridefinizione vocale da lei proposta (il mezzosoprano acuto), la Dessay è un'artista di grandezza e incisività da costringermi a riconoscere ancora una volta in lei (ma non per molto temo) l'Amina di riferimento di oggi.
Salutoni,
Mat