Bravissimo Matteo , un’eccellente disanima del rebus-Nourrit. Mi permetto d’intervenire perché anch’io sono un fan postumo del Nostro, se non altro perché fu un tenore intellettuale (un ossimoro cantante). Vado per punti:
- per afferrare la specificità del fenomeno Nourrit non si può, secondo me, prescindere dall’ambiente nel quale si formò. Il padre, Louis, era un grande tenore gluckian-spontiniano dell’Opéra, egregio esponente di quell’"urlo francese” che tanto infastidiva chiunque francese non fosse: Qualcuno che scrive su questo sito lo definirebbe un declamatore . Ora, è vero che suo figlio Adolphe prese lezioni (si narra all’insaputa del padre) da Garcia padre, lezioni che lo misero in grado di accogliere la rivoluzione francese di Rossini e di partecipare alle sue quattro grandi prime (escludo ovviamente il Viaggio) reggendo anche i passi di coloratura del Moise e dell’Ory. Ma credo che Nourrit figlio lo facesse contaminando le due tradizioni, l’italiana e la francese. E soprattutto che traghettasse nei tempi nuovi due caratteristiche storiche della scuola francese che preservò nella sua arte: l’attenzione per la parola e quella per la recitazione. Come si conviene a una cultura come quella francese nella quale i confini fra teatro “parlato” e “cantato” sono sempre stati molto meno rigidi che in Italia. La nomina di Nourrit, nel ’28 (credo) a professore di “déclamation lyrique” al Conservatorio di Parigi fu certo una vittoria per la rivoluzione rossiniana che cambiò il modo di cantare in Francia (confermata dalla nomina del prode Gioachino a “ispettore generale del canto” dei teatri francesi); ma non credo che di punto in bianco tutta la tradizione precedente sparisse. A cominciare proprio dall’intitolazione della cattedra, che mi sembra la dica lunga;
- come cantasse Nourrit non lo sapremo ovviamente mai. Ma io credo che la sua voce fosse molto più scura e baritonale dei tenori contraltini italiani coevi, tipo Rubini. Certo, entrambi usavano il falsettone (i controtenori non c’entrano, ma sul fatto che tu, caro Mat, ne abbia un’idea così riduttiva mi riservo di scannarti quando aprirai un apposito thread ): però sappiamo che Nourrit arrivava “di petto” al sol acuto, Rubini al si: e questo vorrà dire qualcosa (e poi non credo – ma qui siamo nel campo delle supposizioni - che il falsettone dei tenori italiani fosse la stessa cosa di quello che Nourrit “ereditava” dagli haute-contre suoi predecessori). Del resto, come i baritenori italiani, anche Nourrit, nel Don Giovanni, cantava la parte del don, ovviamente puntata. Personalmente, quando ascoltai Kunde nel famoso Guillaume Tell ultraintegrale di Pesaro (nell’88? ’89? Boh…) il punto dove mi sembrò più in difficoltà fu il terzetto, dove, come tutti gli Arnoldi, tendeva a essere coperto dalle due voci gravi. Viceversa, Shicoff nella Juive era efficacissimo (anzi, per me addirittura commovente) in “Rachel quand du Seigneur” (le cui parole, pare, furono scritte proprio da Nourrit), ma in evidente difficoltà nella cabaletta “italiana” e assai più acuta che segue. Sono d’accordissimo anche sulla complessità psicologica delle parti-Nourrit, benché non abbia idea di come sia il Macbeth di Chelard. Di più, a parte Raoul degli Huguenots, non sono certo eroi romantici standard (e poi, anche Raoul: se si dà un’occhiata alla sua grande scena – sistematicamente tagliata le rare volte che si esegue l’opera – del quinto atto, si scopre che la scrittura non è affatto “1830”, ma prevede un incisivo declamato tutto sulla parola);
- allora, a chi le facciamo cantare, queste benedette opere? Secondo me, le possibilità sono soltanto due: o (ri)cominciamo a puntare le parti come si faceva allora; o scegliamo i cantanti più sulla base di una plausibilità psicologica o interpretativa che sulla possibilità di eseguire le note come sono scritte. Temo però che, in entrambi i casi le reazioni del pubblico darebbero dei problemi a ogni direttore artistico.
Scusate la prolissità.
Ossequi
AM