Allora, finalmente ho un po' di tempo libero, dunque posso scrivere qualcosa in più su questa anteprima di Traviata. Chi non vuole rovinarsi la sorpresa, non legga e aspetti la visione dal vivo o in tv.
Da dove iniziare? Beh intanto inizierei da dire che l'unico nudo che si è visto è stato il torso del domestico di Flora per trenta secondi; qualcuno griderà comunque allo scandalo, ma lasciateli ciarlare. A parte gli scherzi, in questo Cerniakov non trovarete le riscritture a cui ci aveva abituato tra Trovatore, Kitezh e Dialogues; troverete di più il perfetto regista di quell'Eugene Onegin intimo ma cinematografico e curatissimo.
Quindi per Cerniakov chi è Violetta? Una donna come tante altre, forse un po' più vanitosa, appartenente a una upper class estetizzante in cui la decadenza serpeggia velata. Ma in sostanza è sola, si finisce di vestire e ingioiellare davanti a uno specchio enorme con l'aiuto della sua fedelissima Annina (che assomiglia a Serra Yilmaz in qualche film di Ozpetek), unico conforto in questa vita deserticamente affollata. Durante tutto il primo atto ci appare ironica e canzonatoria nei confronti di Alfredo (basta dire che il verso
"Un cor? Sì forse!" lo dice alzandosi l'enorme collana di swarowsky come per vedere se davvero c'è questo cuore), a tal punto che, mentre lui dichiara il suo amore, lei fa tutto tranne considerarlo: guarda il lampadario, sceglie accuratamente il prossimo cocktail, ma di certo non considera l'ennesimo bietolone che si dice innamorato di lei. Tuttavia qualcosa la colpisce, gli dona il fiore tra i capelli, e si apparta con Annina. E qui le due si siedono una di fronte all'altra, col bicchiere in mano e bevono, mentre Violetta apre il cuore alla cameriera-amica, le rivela tutti i suoi dubbi e cerca di ritenerli ragioni valide fino alla fine mentre si sente di nuovo la voce di Alfredo da fuori. Tutto ciò avviene in uno stanzone neoclassico rileccato da un interior designer che magari è tra quella masnada di gente che irrompe nell'appartamento di Violetta all'inizio del primo atto, tutti personaggi strambi, appartenenti a quella upper class decadente che ormai viene celebrata da molti telefilm e videoclip di musica pop. Il culmine infatti si raggiunge al "Si ridesta in ciel l'aurora" quando tutti rientrano totalmente sconvolti, forse ubriachi, forse fatti, forse entrambi e si lanciano nella peggiore, o forse migliore ostentazione del proprio essere tra balletti improbabili, sigarette, persone accasciate che non si reggono in piedi.
Il secondo atto è perfettamente bucolico: una cucina di una casa di campagna in cui troviamo Alfredo e Violetta in una quotidianità consumata. Alla fine ha vinto il bietolone, tanto che lei è diventata una perfetta massaia: porta le verdure, stende la pasta, serve il té a Papà Germont che sta per chiederle il sacrificio della sua vita. Infatti l'unico obiettivo di Papà Germont è e sarà per tutta l'opera quello di toglierla di mezzo, di preservare l'onore, in primis per la figlia, poi per riprendersi il suo Alfredo che, quando scopre che Violetta è andata da Flora, impazzisce e scarica la rabbia tagliando le verdure sulle note di
Di Provenza il mare e il suol. Il sogno bucolico è infranto, non si possono più fare i campagnoli come una volta, il mondo prima o poi ti viene a ricercare. Ed eccolo che irrompe in un salotto rosato, vestito della peggio paccottiglia tra copricapi da pellerossa, vestiti zebrati e sbrilluccicanti, completi dai colori accesi e improbabili vestitini da marinaretto, mentre sui tre tavoli l'alcol abbonda in grandi quantità. Alfredo sopraggiunge sul coro delle zingarelle: pochi lo considerano ma lo stanno tutti scrutando con la coda dell'occhio, sanno che si è appena consumata una tragedia intima. Alfredo si siede e ogni tanto cambia posto sul coro dei mattadori. Ogni suo spostamento è seguito , scrutato, scandagliato: tutti vogliono sapere cosa è successo, chi ha lasciato chi, nella curiosità morbosa tipica di ogni qualvolta avviene qualcosa di nuovo nella vita altrui, quando si fa finta di non sapere nulla dell'accaduto ma si sa già tutto, anche quello che non si vuol sapere. Il dramma tra Violetta e Alfredo si consuma, lui le getta i soldi davanti a tutti mentre lei resta immobile, i soldi che le piovono attorno e Alfredo che la sbeffeggia finché non arriva il padre. Ed ecco che mentre i due Germont accavallano i monologhi distanziandosi sempre di più, Violetta rimane sola e si mette su una sedia iniziando il suo canto di perdono; invano cerca di rimediare, di dare conforto ad Alfredo, ma lui fa di tutto per scostarsi, non la vuole, fino a quando le tende la mano sulla cadenza finale, lei fa per prenderla, lui la toglie di scatto e se ne va, lasciandola nella più completa disperazione.
Il terzo atto si apre sulla stanza di Violetta: Annina dorme su una sedia, Violetta sta sul pavimento, contempla un telefono in attesa di una chiamata che non arriverà; quando non guarda il telefono prende pasticche da un vassoio pieno di scatoline e le deglutisce con alcolici vari sparsi per la stanza. L'amore l'ha consumata nel midollo, persino la ragione l'ha quasi del tutto abbandonata. Si abbandona a una lettura della lettera di una struggenza ultraterrena. Il suo è un grido di dolore totalmente disincantato: lo sa che la fine sta arrivando. Alfredo arriva con un mazzo di rose e dei cioccolatini, le dice che ce la farà, come un malato a cui non si vogliono far perdere le speranze, ma entrambi sanno che andranno poco lontano. Subito dopo la tensione tra i protagonisti si accentua, anche l'offerta dell'immagine è velata di uno sforzo immane di dialogo. I due Germont guardano il prodotto del loro sopruso costernati, mentre sperano che lei non muoia perché la sua morte sarebbe imputabile solo a loro due. Così Violetta, in un atto di forza li spinge verso la porta subito prima di spirare imbottita di psicofarmaci su una delle tante sedie mentre Annina la guarda impotente e con un gesto scaccia via i due assassini.
Il terzo atto è il capolavoro di questa regia: il teatro era immerso in un silenzio da paura, nessun applauso dopo l'Addio del Passato, solo una grande concentrazione. E così è stato per tutti gli atti. Alla fine si è scatenato un vero e proprio delirio. Quando la Damrau è apparsa in scena da sola subito dopo la fine è venuto giù il teatro in un trionfo.
Diana Damrau infatti è la protagonista indiscussa di questa Traviata. E' un ruolo per cui ha le doti richieste sia musicali sia attoriali. Ogni tanto sembra non sentirsi totalmente a suo agio ma il tutto viene ricompensato da altri momenti in cui esplodono le capacità di una grande interprete. Gioca un po' in rimessa nel primo atto, decollando veramente con il finale I ("è strano...ah forse è lui...sempre libera" con mi bemolle perfetto e limpido). Tuttavia se si rivela brava nel secondo atto, nel terzo si rivela tellurica, con un canto prodigo di piani e pianissimi e doti da attrice consumata, aderendo alla lieve riscrittura cernakoviana. La lettera e l'"Addio del passato" sono da manuale con una verità del personaggio disarmante: lettura lentissima, una pausa infinita e, dopo aver infranto un bicchiere, il suo "è tardi" è un urlo di disperazione senza pari. Successo direi meritatissimo.
Da Piotr Beczala mi aspettavo molto meno di quanto poi ha dato sia in canto (non ha gigioneggiato quanto mi aspettavo) sia in resa del personaggio, tracciando un Alfredo classico ma ben credibile.
Lucic si è rivelato corretto nel canto e nell'interpretazione di padre glaciale.
Tra i comprimari, tutti più o meno bravi, menzionerei Nicola Pamio nel ruolo di Giuseppe con la buona prova attoriale nell'atto secondo; e poi va menzionata Mara Zampieri nel ruolo di Annina, tanto buona la sua prova attoriale quanto scombinata quella musicale.
Daniele Gatti ha diretto in maniera ottima con delle intuizioni splendide; un esempio su tutti, le poche frasi d'ingresso di Germont padre, felpate, un po' minacciose, penetranti. Insomma, un direttore che sa che materia ha davanti e sa bene come dirigerla. Un appunto: Gatti ha preso in toto la versione del 1854 tranne che per le ultime battute finali cioè i violini sull'ultimo "E' strano" per cui ha preso l'orchestrazione del 1853 con i violini divisi e trasportati all'ottava sopra. La motivazione è la seguente:
"Verdi, nei momenti epici delle morti quasi trasfigurate delle sue eroine (ad esempio Gilda, Aida, ecc.), utilizza un'orchestrazione rarefatta con timbri diafani all'acuto, che dona pace e serenità all'anima che si accinge a compiere l'ultimo viaggio.E' stato interessante sentire questa versione finale e devo dire che ho trovato la soluzione particolarmente azzeccata.
Ovazioni per tutti, con picchi per Damrau, Gatti e Beczala. Cerniakov non è salito sul palco; peccato, poteva avere un'ovazione sincera (io l'ho visto da vicino dopo, all'uscita degli artisti
)
E infine un pensiero personale: questo è stato il mio battesimo scaligero e devo dire che è stata davvero un'emozione vedere le luci che si spegnevano prima dell'inizio, lasciando i palchi in una leggera penombra rossa, sembrava la scena del teatro ne
I Guermantes di Proust.
Scusate la lenzuolata,
Filippo