Una rispostina al Bagnolo su questo Don Giovanni ancora fresco delle emozioni della visione televisiva. Sarà per ora una rispostina veloce, perché sono le 2 e sono appena rientrato dalla bella serata in casa di amici in cui questo spettacolo è stato la portata principale.
Non mi dilungherò sulla parte musicale, che a me è parsa non solo perfettibile, ma anche lontana dai livelli storici che qualcuno si aspettava. Baremboim si è un po' riscattato al secondo atto, ma nel complesso l'ho trovato povero e pesante. Hai ragione tu, intendiamoci: ha le sue idee, le sue nostalgie tardo-romantiche, le sue pedanterie germano-oscurantiste. Sarebbe assurdo aspettarsi da lui un Don Giovanni diverso, hai perfettamente ragione! E io non me lo aspettavo giuro! Mi aspettavo solo che uno come lui non fosse chiamato a dirigere oggi il Don Giovanni!
Relativamente al cast, ho trovato bravo Mattei ma non tanto bravo quanto in altre occasioni. Da Terfel in Leporello mi aspettavo forse troppo poco, tanto che tutto sommato è anche riuscito a colpirmi: nonostante la scrittura vocale non gli convenga più, nonostante Mozart non gli convenga più, nonostante il personaggio non gli convenga più, Terfel è comunque Terfel. Dell'Ottavio di Filianoti faccio volentieri a meno e non mi lascia entusiasta nemmeno il commendatore di Youn. Sul fronte donne, sono un po' più severo di te. La Frittoli non si capiva cosa ci stesse a fare là in mezzo. Persa la bellezza timbrica di dieci anni fa, resta una personalità modesta, una gestualità di paese, una vocalità fragile. La Prohaska ha invece una personalità molto affermata e a tratti è riuscita a dimostrarlo. Peccato che la scrittura vocale di Zerlina (chissà se prima o poi ce ne renderemo conto) è troppo centralizzante e corposa per una voce come la sua. Anche della Netrebko non sono, questa volta, troppo soddisfatto. Continua a essere una delle maggiori artiste di oggi, ma non riesce a attrarre Anna in una dimensione significativa Musicalmente si può fare molto di meglio: Il volume si impone e così pure certi accenti appassionati, ma la linea è imprecisa, gli acuti stranamente incerti (le si è persino spezzato il si bemolle filato dell'ultima aria) e le agilità davvero brutte. Di Anne migliori se ne possono tranquillamente trovare.
Se però a livello musicale siamo in territori molto prosaici, a livello registico secondo me ci si affaccia sul genio. Mi aspettavo che Carsen, per un simile incontro, tenesse in serbo molte frecce, ma uno spettacolo di tale grandezza e coerenza ha spiazzato persino me. L'unica cosa che, in teoria, potremmo rimpoverargli - a uno come lui che di solito è un grande direttore di attori - è di aver curato pochissimo questo aspetto, lasciando gli interpreti alla convenzionalità dei loro gesti (e non aiutando per niente quelli fra loro - la Frittoli e Filianoti - che proprio non sanno recitare). I suoi personaggi, almeno in questa occasione, non conquistano affatto, non indagano la loro umanità. Ma anche questa non è una vera critica, perché in uno spettacolo così concepito i personaggi non sono davvero importanti: sono funzioni di un'idea, ingranaggi di un'architettura ideale e narrativa grandiosa e non (come per Cerniakov e Guth) psicologie da esplorare. Domani approfondiremo la cosa.
Per ora mi limito ad aggiungere una considerazione in risposta alla bella recensione del nostro nuovo amico, Torretower, che anzitutto ringrazio per aver condiviso con noi le sue emozioni della generale.
Torretower ha scritto:L'idea che Carsen vuol far passare, e nel suo intento riesce perfettamente, è che in fondo Don Giovanni sia un modello, una figura positiva, il massimo della libertà. Nell'opuscolo che ci è stato distribuito all'ingresso venivano riportati alcuni passi di Carsen in cui il regista sosteneva apertyamente questa tesi, arrivando, a mio parere, fino all'assurdo. Don Giovanni è il Dissoluto PUNITO. Non è una figura positiva.
La "positività" e la "negatività" di Don Giovanni è un'interessante questione, molto complessa, che in passato abbiamo già trattato su questo forum. Potremo eventualmente recuperare quel vecchio thread e discuterne nuovamente. Ma, in riferimento alla spettacolo di Carsen, non mi pare che c'entri. Da quello che mi è sembrato di capire, la positività o meno del protagonista (e così pure la sua aspirazione alla libertà) non sono importanti nel progetto di questo allestimento. Ben altri credo siano i problemi su cui il regista si è concentrato. Ne parleremo...
Intanto un salutone a te e a tutti. Mat assonnatissimo.
Dò un giudizio molto parziale (e per questo sarà senz'altro, a sua volta, criticato) perché ho visto soltanto la parte finale dell'opera (e mi riservo di rivederla per intero domenica prossima 11, visto che Rai 5 la riprogramma al mattino), cioè a partire dall'aria "Il mio tesoro intanto" fino alla fine. Come idee però sono molto più vicino a Matteo che non a Pietro. Faccio una sintesi telegrafica: regia non interessante (troppi siparietti, troppa staticità e molta monotonia visiva), direzione priva di vitalità, triste (è vero che l'opera finisce male, ma non si udivano né il carattere orgiastico della prima parte della scena del banchetto finale, né quello apocalittico della fine del protagonista): Don Giovanni è eroe tragico, ma l'opera nel suo insieme ha anche momenti giocosi e, per quanto ho sentito, tutto questo elemento era piuttosto assente. Dei cantanti: mi sbaglio o si è tornati agli anni '50 con cachinni e cachinnetti, risatine varie... (cf. scena del cimitero) ? Mattei non mi è parso tutto quel carismatico che lo si vuole raffigurare: canta bene, ma non sfodera - a mio avviso - molta autorità, la dizione poi non ne parliamo.... Anche la sua ricomparsa finale "alla Oscar Wilde" non mi ha convinto (ma questa è una scelta registica non un elemento vocale): ha il pregio però di essere giovanile. Terfel è carismatico sì, ma anche vecchiotto. Ma poi mi pareva sbilanciato rispetto al protagonista. Un D'Arcangelo, ad esempio, avrebbe figurato meglio. Della coppia 'paesana': non ho udito la Zerlina e Masetto (o almeno nel concertato finale) e non dò giudizio, ma gli altri 3 sì: la Frittoli non mi ha mai entusiasmato e sentirla in una parte veemente e passionale non mi è davvero parso tutto questo granché. La Netrebko è sempre una bella presenza, ma si sente una non perfetta forma (declino?): non è soltanto la nota spezzata, come osservava Matteo, ma anche la dizione incerta e certa opacità. In alto le cose procedono meglio specie se le note sono veementi. Filianoti bel timbro, bella presenza ma canto diseguale e a tratti non in regola in certi attacchi. Però l'esecuzione de "Il mio tesoro" non era malvagia. Ne ho sentite di peggiori anche da cantanti più osannati di Filianoti. Il Commendatore era 'passabile'.
Solo qualche idea buttata lì e, visto che ci sono, devo dire che il Macbeth inaugurale qui a Roma al quale ho assistito una settimana fa è stato, come resa scenica e strumentale, migliore di questo Don Giovanni milanese: Muti (e non sono un suo fan) ha diretto - specie nel III-IV atto - con fuoco, la regia molto efficace e suggestiva per luci, movimenti ecc., ma soprattutto dinamica e viva. Il cast, pur non arrivando a schierare le celebrità scaligere (Netrebko, Terfel...), si è comportato onestamente. Lo so: sono opere molto diverse, però il raccontare una storia qui a Roma si è visto, mentre da quanto poco del Don Giovanni ho visto in tv, il tutto mi pareva piuttosto statico. Mi riservo di re-intervenire dopo aver rivisto lo spettacolo per intero e dopo che altri proseguiranno la discussione.
Oh, sapete che vi dico? A me è piaciuto, e proprio tanto! Non tanto per l'allestimento, che come sempre trattandosi di Carsen è curato e non scontato, ma un po' riciclato e a corto di idee davvero personali, quanto per la parte musicale. A me Mattei è sembrato un protagonista memorabile, uno dei migliori che abbia mai sentito, capace di farmi riandare con la mente ad uno dei miei Don preferiti, Eberhard Wächter. Davvero magnetico! Terfel è sempre lui, come dice Mat. E' in declino, la parte è spesso un po' bassa e arriva alla fine del II atto senza voce, ma non c'è niente da fare, ti tiene lì, è un gangster del canto lirico e sa far vivere i personaggi come pochi al mondo. Su Masetto stendiamo un velo pietoso, mentre direi che Youn se la sia cavata ottimemente; peccato solo che abbia cercato di fare il vocione nella scena finale, risultando a volte un po' oscillante. La Netrebko nel I atto è stata una Donna Anna di livello eccelso, per voce, volume, senso della parola, interpretazione! Peccato solo che nel II atto sia andata un po' nel pallone nella sua grande aria, scroccando il filato, perdendo talvolta l'intonazione, rimanendo a corto di fiato e raffazzonando le agilità. Ripeto, peccato! Ma il resto della sua Donna Anna è stato superbo! La Frittoli è invece partita malissimo vocalmente, sbiadita e incolore nell'entrata, ma è cresciuta nel corso della serata. Peccato che non sempre sia stata capace di uscire dagli stilemi della recitazione "da cantante lirico". Il campione di questi tic però è stato Filianoti, che davvero ha ripetuto, con voce corposa ma paurosamente accorciata in alto, un Don Ottavio classico che più classico non si può. La Prohaska a me non è sembrata atroce, ma nemmeno memorabile. Baremboim un po' fracassone in certi punti, con tempi non molto coerenti, ma di bel suono orchestrale. Una direzione come se ne possono sentire a quintali, nella discografia ma non solo. Buon 8 dicembre, vado a ingozzarmi di torrone per le vie della mia città!
Il mondo dei melomani è talmente contorto che nemmeno Krafft-Ebing sarebbe riuscito a capirci qualcosa...
pbagnoli ha scritto:È una regia adattissima a una serata inaugurale: Milano e Sant'Ambrogio non si prestano teoricamente alla destrutturazioni di un Guth, di un Tcherniakov o di un Jones. Però la sensazione è che Carsen si sia un po' imbottigliato nelle sue idee registiche senza uscire da un cliché ormai abbondantemente sfruttato.
Luca ha scritto:regia non interessante (troppi siparietti, troppa staticità e molta monotonia visiva)
Tucidide ha scritto:Non tanto per l'allestimento, che come sempre trattandosi di Carsen è curato e non scontato, ma un po' riciclato e a corto di idee davvero personali
Mi chiedo che spettacolo abbiamo visto! E secondo te, Pietro, questa regia non sarebbe "destruttarata"? Tu ci hai visto la storia narrata da Da Ponte? Non ti pare che in scena venga narrato qualcos'altro? E dire che a me pareva che fossimo andati ben più in là, nella narrazione, di quanto fa il buon Guth che, se non altro, racconta pur sempre tante storie d'amore, di sesso e di solitudine, proprio come Da Ponte. Carsen niente di tutto questo... ma evidentemente sbaglio!
Se è per questo a me non pare nemmeno che ci sia nulla di riciclato nel Don Giovanni di CArsen e che questo spettacolo trabocchi di idee uniche e mai viste prima. Evidentemente dico questo perché ho visto pochi spettacoli di questo regista (ho fatto il conto: solo 27 regie di Carsen dal vivo negli ultimi vent'anni) e quindi non lo conosco abbastanza per non essermi accorto di quanto fosse riciclato e a corto di idee. Mi farebbe piacere che qualcuno mi spiegasse quali sono le idee di questo Don Giovanni, cosa si è voluto dire, che storia ci viene raccontata. Non dovrebbe essere difficile, visto che, come dice Tuc, le idee in campo erano così poche.
Ma sorpattutto mi piacerebbe che qualcuno mi spiegasse dove sono le cose già viste e riviste... Solo vi prego: non dimostratemi che è ripetitivo solo perché è ancora centrale il rapporto tra verità e finzione artistica, come in altre regie di Carsen, perché allora mi cascherebbero davvero le braccia. Sarebbe come dire che Omero è imbottigliato e a corto di idee perché, dopo l'Iliade, cosa ci ha propinato?.... un altro poema epico! ancora ispirato al ciclo troiano! Ma che palle! Un po' di fantasia, su...
Sul serio, aiutatemi a capire un po' questo spettacolo, perché temo di non esserci riuscito. Salutoni, Mat
Scusa, Mon ami: anche se non ho visto 27 regie di Carsen, è una mia impressione oppure Tosca, Carmen, i Racconti di Hoffmann e questo Don Giovanni sembrano vagamente apparentati dall'idea del "teatro nel teatro"?... Se Poi dici che in questo DG ci sono un migliaio di altre idee, sono talmente d'accordo con te da essere bloccato sulla recensione da ieri sera, ma per piacere: partiamo da qualche dato di fatto senza fare canzonette, d'accordo?
"Dopo morto, tornerò sulla terra come portiere di bordello e non farò entrare nessuno di voi!" (Arturo Toscanini, ai musicisti della NBC Orchestra)
pbagnoli ha scritto:è una mia impressione oppure Tosca, Carmen, i Racconti di Hoffmann e questo Don Giovanni sembrano vagamente apparentati dall'idea del "teatro nel teatro"?...
Direi senz'altro di sì, anche se in questo caso il tema conduttore, Pietro, non è il "teatro nel teatro", ma al contrario il rapporto tra verità e finzione (nelle sue più complesse e incredibili conseguenze: finizione della verità e verità della finzione). E comunque aggiungerei Arianna a Nasso e Capriccio. Tuttavia non vedo che male ci sia che un tema, carissimo a Carsen, sia stato da lui declinato in diverse opere, portato sempre più in là - titolo dopo titolo - nell'audacia della moltiplicazione delle sue implicazioni. Se avere un tema conduttore su cui concentrarsi è un delitto, allora lo è anche per Wagner, con il suo nihilismo schopenaueriano; lo è anche per Verdi, con i suoi vinti, esclusi e maledetti.
Comunque aspetto le tue opinioni. Magari butto giù qualche cosa anche io. Salutoni, Mat
Scusate, ma solo io ho sentito dei cantanti amplificati in modo orribile, con le voci tutte appiattite? Lo chiedo perchè mi serve un incentivo per collegare la TV allo stereo...
Quello del "teatro nel teatro" è qualcosa di più che un cliché per Robert Carsen: è un'applicazione pressoché costante laddove i personaggi di cui parla si pongono come archetipi. Penso ovviamente soprattutto a Tosca, Hoffmann, Carmen e, adesso, anche Don Giovanni. È la vita stessa a diventare teatro, gli spettatori sono a loro volta attori, esiste un'osmosi completa fra palco e platea, ma questo accade allorché c'è in scena un personaggio che catalizza questa reazione chimica che porta all'identificazione del pubblico con il protagonista. È logico che un ragionamento di questo tipo porta come conseguenza la perdita della valenza mitica del personaggio, che perde la sua funzione archetipica per rivestire i panni del vicino di casa, del collega che ci troviamo sul posto di lavoro; o - aspetto anche più inquietante - dello psicanalista cui ci rivolgiamo per scaricare le nevrosi della nostra vita costruita sulle falsità e sulle convenzioni. Tutti viviamo di falsità e convenzioni, nessuno escluso, a cominciare da coloro che pretendono di non mentire mai e, conseguentemente, fanno la morale agli altri: ed è contro di essi che si scatena Giovanni, mostrando loro che in realtà vivono costantemente su un palcoscenico, e recitano la farsa della morale. È una logica molto pirandelliana: è lo stesso eterno dualismo fra la signora Frola e il signor Ponza e, come quello, è destinato a rimanere irrisolto. È la vita a trasformarsi in palcoscenico e a dare valenza teatrale ai personaggi? Non lo sappiamo, ma non ci sentiremmo di escluderlo aprioristicamente. Don Giovanni non fa eccezione. Robert Carsen ne fa un dandy raffinato - cui Peter Mattei presta voce e lineamenti di colui che è uno dei riferimenti assoluti del ruolo - ma che mai, in nessun momento, dà l'idea di poter essere scambiato per un Mito. In ciò, Carsen fa l'unico gesto di avvicinamento ai Grandi Destrutturatori (Guth e Tcherniakov) che hanno demolito e scomposto il personaggio del Burlador togliendogli l'aura di mito e facendolo camminare quasi per tappe obbligate e inevitabili verso il compimento del proprio destino. E qui si fermano anche gli omaggi e le analogie, perché Carsen sceglie una strada diversa, apparentemente (solo apparentemente) più tranquillizzante e quindi molto più adeguata al contesto e al tipo di serata. Barenboim dà l'attacco ai due famosi accordi iniziali e Don Giovanni straccia il sipario, rivelando uno specchio e aprendo quindi un continuum che sarà poi rimarcato anche nel corso della serata: siamo tutti parte di un'umanità corrotta, in cui non ci sono più - se mai ce ne sono stati - valori morali da affermare, e ben lo rimarcherà il finale in cui un Giovanni improvvisamente redento ricomparirà fumando una sigaretta (come nel finale primo) mentre tutti gli altri verranno precipitati nell'abisso della loro solitudine, delle loro convenzioni. Tutto è convenzione. Tutti fanno esattamente quello che ci aspettiamo, né più né meno. Anna si fa scopare da Giovanni e ci prova pure gusto. Ottavio ha l'allure patetica e dignitosa da cocu magnifique e non fa nulla per nasconderlo; di tutti i personaggi è il più miserabile ed è quello che richiama il Mr. Cellophane di Amos, il marito di Roxie in "Chicago" (e, quanto al solo aspetto di aderenza al modello, Filianoti è straordinario). Leporello è l'anima nera di Don Giovanni e Elvira si fa distruggere dalla passione sino al punto di trasformarsi - come un replicante di Zelig, sto parlando ovviamente del personaggio di Woody Allen - in qualunque donna amata da Giovanni. Zerlina ci sta in tutti i modi in cui è possibile starci, ma poi si scopa il marito e di problemi non ce ne sono più. E così via. E allora - viene da dire - gli altri cos'hanno da rimproverare a Giovanni? Nulla. Lui non è più nemmeno l'archetipo della Libertà estrema, a tutti i costi, quella per cui si muore, come capitava nelle grandi incarnazioni mitiche degli anni che furono, e che non avrebbero più senso. Lui è lo psicanalista, quello che svela al mondo che lo guarda la falsità della morale, la convenzionalità del finalino fugato: da questo punto di vista, questa di Carsen è una lettura che non potrebbe essere più mozartiana di così. Sin dal gesto iniziale in cui strappa il sipario per rivelare lo specchio è come se dicesse: "Ragazzi, qui si parla di voi. Nessuno si può nascondere dietro a un dito". Riflettendoci a mente più serena, penso che oltre al già citato finale due, i momenti più rivelatori di questa impostazione siano stati il finale uno e il "Mi tradì quell'alma ingrata", in cui il fondale viene replicato all'infinito come quando ci poniamo fra due specchi contrapposti. Infine, una piccola nota forse involontariamente umoristica (o forse no...): la Statua del Commendatore che compare fra Presidente della Repubblica e Presidente del Consiglio e annuncia: "Di rider finirai prima dell'aurora"... Con Carsen finisce il mondo dell'ambiguità mozartiana, delle cose non dette, del sorriso simile a quello della Gioconda che sembra nascondere chissà quali universi. Non c'è niente da capire a livello eventuale: è tutto scritto e pienamente alla portata della nostra comprensione, si tratta solo di aderire al modello, di rassegnarsi all'idea che non c'è nessun mistero, ma solo la rivelazione della nostra prevedibilità. L'uomo non è mai stato meno misterioso di così.
La parte musicale non è stata altrettanto innovativa. Non poteva logicamente esserlo, vista la presenza in buca di Daniel Barenboim a tirare le fila del discorso. Costui, orgogliosamente e trionfalmente reazionario, a dispetto di tutti e contro la Storia esecutiva che ha ridisegnato i confini in cui questo capolavoro dovrebbe muoversi, ci ripropone un Don Giovanni che sembra designato non su Furtwaengler - di cui non ha la torva grandiosità - né tanto meno su Walter, ma su Bohm e sulla sua serena, maestosa pensosità. Alla fine non è una brutta direzione: è calma, pastosa, rotonda, sostiene bene il canto e sottolinea benissimo tutti i momenti topici, ma se ne fotte alla grandissima di tutto quello che è stato scritto diciamo da Gardiner in avanti. E sia chiaro: non è questione di strumenti antichi o repliche degli stessi. Barenboim - che appare scollatissimo dal palcoscenico e sembra procedere su binari paralleli a quelli di Carsen - ha ancora davanti agli occhi il modello del Mito. I "suoi" cantanti non hanno le certezze raccontate da Carsen, ma lasciano ancora la narrazione in sospeso, in un mondo di detto e non detto come avveniva una volta; peccato che invece sul palcoscenico avvenga tutt'altro. Sul fronte vocale c'è una commistione fra vecchio ordinamento e nuovo che avanza, a compartimenti non proprio separati. Don Giovanni è il grandissimo Peter Mattei.
Svedese, 46 anni, è uno dei migliori interpreti del Burlador che si possano trovare sui palcoscenici di tutto il mondo: averlo arruolato per la sera del 7 dicembre è cosa buona e giusta. Il suo canto, morbido e ricco di colori, non ha le asprezze di altri protagonisti anch'essi declamatori di elevato profilo (penso a Gilfry, Werba o Weisser) ma sembra piuttosto rievocare l'ironia e la souplesse di Keenlyside o di Skhovus, con altri aspetti che sono più propriamente riconducibili a lui. Eccellente da tutti i punti vista la tenuta ritmica ("Fin ch'han del vino" è travolgente senza mai piombare nello sbragamento come càpita a molti protagonisti che in quel minuto e mezzo vanno in anossia); morbida e raffinata la declamazione, dettaglio che l'accomuna a Finley, cioè il meglio possibile del canto baritonale colorista di oggi. Al suo fianco, il leggendario Leporello di Terfel purtroppo ampiamente oltre i limiti per un'operazione del genere.
Terfel, ormai declamatore votato ai grandi ruoli wagneriani, non può più esprimere un canto mozartiano attendibile, a maggior ragione per i parametri odierni, tanto più esigenti rispetto a quello che avveniva in passato. Certo, il grande istrione che c'è in lui riesce a tratteggiare un personaggio attendibile, ma siamo abbondantemente fuori tempo massimo. Per di più la voce appare non gestita alla perfezione, e questo risultava evidente già anche nelle performance di Wotan al Metropolitan; ne derivano latrati che nulla c'entrano né col personaggio, né con le belle maniere messe in campo dal suo interlocutore Mattei. Anna Netrebko avrebbe francamente bisogno di perdere qualche chilo, ma la sua vocalità sontuosa, rigogliosa, ricca di armonici e splendidamente appoggiata è quella di una protagonista di classe suprema, nonostante un si bemolle scroccato (emozione da prima? Non è comunque da questi particolari che si giudica un calciatore, come direbbe De Gregori). Gli applausi che porta a casa sono ampiamente meritati.
Molto meno interessante Barbara Frittoli, convocata per sostituire l'originariamente prevista Elina Garanca. Si tratta di un grossolano errore di distribuzione, viste le caratteristiche che non potrebbero essere più diverse da quelle della cantante lettone. È una professionista seria, preparata e affidabile, ma il suo mondo espressivo non è lo stesso di quello degli altri cantanti: i suoi colori sono quelli di una cantante italiana, per di più a disagio con l'universo evocato dalla complessa regia di Carsen, e con il regista che le ritaglia addosso un personaggio fragile, indifeso, che si inventa mille facce pur tener avvinto a sé l'amato bene. Filianoti avrebbe voce e physique du rôle (del - credo involontario - rimando registico al Mr. Cellophane di "Chicago" ho già parlato), ma non sempre intonazione impeccabile che si sposi alla bellezza della linea vocale. Delle sue arie solistiche mi è piaciuta maggiormente la seconda, che ha evidenziato un ottimo controllo del fiato. Anna Prohaska è un soprano abbastanza leggero, dotato però di una voce che rimane impressa nell'ascoltatore; ha in più personalità e grinta nel porgere la frase ma, per il resto, concordo con chi sostiene che quella di Zerlina è una parte centralizzante che richiede altre caratteristiche vocali (nel 1987 fu Susanne Mentzer, eccellente mezzosoprano). Il suo sposo non si segnala per particolari virtù.
Rimango infine piuttosto perplesso di fronte alla prova di Kwangchoul Youn. La parte è quello che è, ma la voce balla oltre i limiti di guardia
"Dopo morto, tornerò sulla terra come portiere di bordello e non farò entrare nessuno di voi!" (Arturo Toscanini, ai musicisti della NBC Orchestra)
Alberich ha scritto:Scusate, ma solo io ho sentito dei cantanti amplificati in modo orribile, con le voci tutte appiattite? Lo chiedo perchè mi serve un incentivo per collegare la TV allo stereo...
Anche io ho avuto questa impressione, ma anche per colpa del televisore. Collegare un buon televisore a un buon impianto stereo con buoni altoparlanti è sempre meglio.
Alberich ha scritto:Scusate, ma solo io ho sentito dei cantanti amplificati in modo orribile, con le voci tutte appiattite? Lo chiedo perchè mi serve un incentivo per collegare la TV allo stereo...
Anche io ho avuto questa impressione, ma anche per colpa del televisore. Collegare un buon televisore a un buon impianto stereo con buoni altoparlanti è sempre meglio.
Per l'occasione ha debuttato il mio nuovo impiantino collegato al TV appena acquistato... posso assicurare che la qualità dell'audio di Rai5 era assai poco buona. Quando poi i cantanti erano vicini si sentiva l'effetto di eco.
Matteo, quando parlo di idee riciclate parlo della visione di Don Giovanni non "cattivo", della denuncia dell'ipocrisia dei suoi accusatori, dello specchio che vuole farci tutti parte del dramma, quasi a dire: occhio, siete anche voi così! Parlo del teatro nel teatro, della solitudine del protagonista, dell'arrapamento delle donne per lui. Insomma... non discuto che Carsen abbia saputo coniugare tutti questi aspetti in un'idea coerente, e abbia narrato in modo notevole la storia. Mi pare però che abbia, se non saccheggiato, almeno "buttato l'occhio", come si dice, su altre regie e abbia riusato le idee più geniali delle proprie creazioni precedenti. Niente di male, ci mancherebbe, anche perché conta il risultato, che secondo me non è stato esaltante ma comunque interessante; però aspetto davvero con curiosità le tue considerazioni per rifletterci su da un altro punto di vista.
Il mondo dei melomani è talmente contorto che nemmeno Krafft-Ebing sarebbe riuscito a capirci qualcosa...
Tucidide ha scritto:parlo della visione di Don Giovanni non "cattivo",
Davvero ritieni che Don Giovanni in questa regia non sia cattivo? E perchè?
della denuncia dell'ipocrisia dei suoi accusatori
Ma di che spettacolo stiamo parlando? Quella di ieri sera? Ipocrisia degli accusatori?
dello specchio che vuole farci tutti parte del dramma, quasi a dire: occhio, siete anche voi così!
Ma tu e Pietro pensate davvero che questo fosse il significato dello specchio basculante? :O Cioé che anche "noi" siamo così? Ma ragazzi vi prego: stiamo parlando di Robert Carsen! Non pensate che forse questa ipotesi è banale perché non è affatto sua... e che per lui lo specchio avesse tutt'altro significato (tra l'altro assai più immediato e forte)?
Parlo del teatro nel teatro
Come ho già detto a Pietro, a me non pare proprio che il teatro nel teatro c'entri con questa regia! Siamo molto più in là.
della solitudine del protagonista,
dell'arrapamento delle donne per lui.
Ma davvero, e qui mi riferisco anche a Pietro, le ragioni umane e psicologiche dei personaggi vi sono parse tanto importanti? A me è parso che quasi non esistessero i personeggi... figuriamoci le loro ragioni, i loro arrapamenti e le loro ipocrisie. E la solitudine del protagonista? In che senso sarebbe solo? Dove è emersa questa cosa? E il suo combattere convenzionalismi e ipocrisie? Ma dove lo avete ricavato tutto questo? E come mi spiegate l'ambientazione? E la successione dei piani teatrali? E l'apparizione del commendatore nel palco centrale? e tutto il finale?
Lo chiedo senza alcuna ironia! A me le cose sono parse diverse, a me era parso che Carsen stesse dicendo tutt'altro, ma è possibile che le vostre interpretazioni siano più corrette della mia. Purché sappiate spiegarmi la scelta del contesto, dei costumi, dei simboli incontrovertibili e del finale.
Io non dico che Carsen ci debba piacere per forza, ma almeno dovremmo interrogarci un po' su cosa ci ha detto, prima di accusarlo di dire cose banali. Comunque grazie a Pietro per la bella recensione (che condivido praticamente su tutto, tranne qualche considerazione sullo spettacolo) e a tutti per la possibilità di interrogarci insieme su questo (per me) sconvolgente allestimento.
Ciao a tutti, dopo lunga assenza dovuta a gravi problemi personali,torno a scrivere alcune delle mie sciocchezze su questo meraviglioso forum... Dunque, anche io ieri ho visto questo Don Giovanni ,purtroppo in televisione, e devo dire che le uniche cose che mi hanno favorevolmente colpito sono state proprio la regia e l'allestimento... Le ho trovate veramente geniali perchè piuttosto che spingere a trovare risposte e definizioni ovvie e scontate invitano , come auspicato da MatMarazzi, a porsi interrogativi , continuamente sollecitati da un sofisticato , ma mai fine a sè stesso ,esercizio di rimandi spazio-temporali fra attori sul palco, fra attori e spettatori, fra spettatori e spettatori, e ancora fra tutti questi e l'intero spazio teatrale(palcoscenico,platea,palchi...)...Tutto questo attraverso l'uso sapiente di pochi fondamentali elementi costituenti lo stesso spazio scenico( sipario,tende,fondali) usati in maniera ripetitiva,quasi ossessiva , ma mai banale... Più che il "teatro nel teatro" mi pareva che protagonista fosse il "teatro" in senso stretto... L'ouverture:cade il sipario e mi trovo davanti uno specchio,per giunta basculante e quindi deformante la realtà,instabile...L'impatto è stato per me spiazzante,sinceramente anche un pò angosciante e claustrofobico...Piuttosto che il comodo e rassicurante spazio vuoto e profondo in cui altri,pagati,dovranno per me lavorare intrattenendomi,mi trovo di colpo schiacciato contro me stesso ,in un senso quasi di oppressione,di fronte a una membrana che costringe a specchiarsi ma che anche fisicamente e inesorabilmente delimita e restringe lo spazio...Per questo più che pensare :"mi specchio,dunque sono anche io cosi" vi ho letto delle implicazioni più propriante spaziali...Mi pare che lo spettacolo tutto fosse pieno di soluzioni e sollecitazioni geniali di questo tipo... Mi viene in mente che MatMarazzi ha in alcune occasioni parlato della sua passione per certo cinema di genere e per Dario Argento...Anche io sono un suo fan(non me ne vergogno-mi riferisco ai suoi anni migliori ovviamente)...Il continuo gioco sui punti di vista (spettatore,scena,regia...) mi ha fatto venire in mente la meravigliosa e insuperata scena del bagno in Suspiria...
Raffaele ha scritto: Mi viene in mente che MatMarazzi ha in alcune occasioni parlato della sua passione per certo cinema di genere e per Dario Argento...Anche io sono un suo fan(non me ne vergogno-mi riferisco ai suoi anni migliori ovviamente)...Il continuo gioco sui punti di vista (spettatore,scena,regia...) mi ha fatto venire in mente la meravigliosa e insuperata scena del bagno in Suspiria...
Matteo ha cercato di coinvolgere anche me nei film di Dario Argento, ma sinora non ne ho mai visto uno, lo ammetto. Vorrei però che Matteo - che ha il pomeriggio libero, me lo ha detto lui - ci raccontasse le SUE impressioni su questo allestimento
"Dopo morto, tornerò sulla terra come portiere di bordello e non farò entrare nessuno di voi!" (Arturo Toscanini, ai musicisti della NBC Orchestra)
Alberich ha scritto:Però lo sai anche tu che adesso non puoi tirarti indietro
Ci provo. Poi voi mi direte se trovate delle incoerenze in quello che a me è parso di scorgere. Intanto il contesto. Impossibile non comprendere, fin dalle prime immagini, dove Carsen ricollochi la vicenda del suo Don Giovanni. E' fuori di dubbio che siamo in un teatro. E addirittura un ben preciso teatro, la Scala stessa. Anche i Racconti di Hoffman (che vidi all’Opéra Bastille nel 2001 e che fra poco la Scala riproporrà) erano ambientati in un teatro; anche il Capriccio (Palais Garnier); anche la Tosca (Opernhaus di Zurigo); anche la Carmen (Amsterdam) e anche l’Ariadne auf Naxos (Prinzregentheater di Monaco). Una linea sottile unisce queste memorabili regie, come se fossero capitoli di uno stesso libro, una serie di riflessioni che si nutrono di diverse musiche e diverse storie per portare sempre più in là la vertigine che si genra quando Verità e Rappresentazione entrano in corto circuito fra loro.
IL tema riguarda tutti noi. E' molto forte e sentito soprattutto oggi. E' vero che sono millenni ormai che i filosofi orientali e occidentali ci si interrogano, ma è anche vero che solo oggi, nella civiltà della realtà virtuale, chiunque si pone questi interrogativi. Sarebbe comodo che la vita "reale" fosse completamente distinta da quella "rappresentata". Ma non è così o per lo meno le cose non sono così semplici.
Non si potrebbe, ad esempio, affermare che i personaggi di una rappresentazione in fondo esistono anche loro? Non sono forse più reali di noi, loro che vivono per secoli nell'immaginario collettivo mentre noi siamo sconosciuti e dispersi fra altri milioni di replicanti nella vita reale? Non è che - come dice Don Quichotte - si può essere fantasmi nella vita e reali solo nella rappresentazione che l’umanità farà di noi? E poi come distinguere la rappresentazione dalla realtà? Quando leggiamo sul giornale una storia di cronaca, non è forse una rappresentazione anch'essa? Non è una storia che ci viene narrata…, come il soggetto di un libretto? Non sarà forse che la realtà in quanto tale è inconoscibile e quella che noi chiamiamo realtà non è altro che una nostra rappresentazione di essa? E se questo è vero, non sarà che lo spettacolo – in quanto dichiaratamente rappresentativo – sia più reale di quell’informe massa di volti indistinti che chiamiamo pubblico? In che misura dunque si può fissare un confine fra arte e realtà? Tra rappresentazione e vita? In che misura queste due dimensioni che noi ci sforziamo – per il nostro bene – di considerare separate e inaccessibili, possono entrare in contatto?
Che Robert Carsen avverta questo problema, che ne abbia fatto uno dei vertici della sua poetica è evidente. E’ altrettanto evidente che lui non è un filosofo, non può dare delle risposte. E’ un artista è come tale può fare solo una cosa: prendere lo schianto tra verità e rappresentazione e … rappresentarlo, metterlo sulla scena, facendone una verità, con la forza della sua arte.
Io, per la prima volta, ho avvertito la potenza dello schianto descritto da Carsen (più ancora che nei RAcconti di Hoffmann) nel Capriccio di Strauss all'Opéra di Parigi. Tutta la prima parte dell'Opera era stata abbastanza realistica: teatro e vita interagivano ma in modo sobrio e giusto divertente. Poi il finale è stato di una tale potenza che ancora oggi, ripensandoci, rabbrividisco.
Prima del grande monologo della Contessa il sipario era calato. Poi improvvisamente si era alzato lasciando vedere al pubblico non più la realtà ma l'esaltazione stessa della finzione. Avete presente i teatrini (piccoli e di cartone) che vengono utilizzati dagli scenografi per provare i loro bozzetti nello spazio? Bene. Uno di questi teatrini era stato utilizzato da La Roche, il direttore scenico di Capriccio, per mostrare ai personaggi il suo progetto teatrale. Il teatrino era allestito con una mini-scenografia molto tradizionale: una sala barocca molto semplice, con quinte prospettiche, alcune seggioline di lato e uno specchio sul fondo. Dentro c'era pure una figurina di donna (anche lei di cartone) vestita con un lussuoso vestitino da dama settecentesca.
Bene, ci siamo capiti. Quando nel finale, vi dicevo, si sollevava il sipario, quello che ci è apparso davanti era proprio un teatrino così, ma di dimensioni vastissime, grande come tutto il palcoscenico dell'Opéra. E al centro, al posto del figurino di carta (ma vestita allo stesso modo) la Contessa, illuminata - colmo della finzione - da un radioso occhio di bue. Questa spaventosa, sconvolgente irruzione della finzione nella realtà (che poi realtà non era, perché anche il resto dell'opera era rappresentazione) era di un impatto semplicemente indescrivibile.
Alla fine del monologo, sul fluire di quella musica sublime, succedeva qualcosa che resterà sempre nella mia memoria. La Contessa ci volta le spalle e si guarda allo specchio sul fondo. Poi comincia ad avanzare verso lo specchio, con passo talmente deciso che si teme una collisione. E tuttavia, proprio quando sta per scontrarsi contro lo specchio, tutto il teatrino si solleva mostrando completamente spoglio il teatro vero. Le luci si accendono, i macchinisti sono intenti al loro lavoro e una segretaria accorre alla cantante, che ora non è più la Contessa, non è più il personaggio: ora è René Fleming, che chiacchiera e si comincia a togliere l'abito di scena. . Questa irruzione del vero nel massimo del fittizio è semplicemente sconvolgente. Ma sarà poi vero? No, è ancora rappresentazione: la musica continua a fluire, il pubblico ancora è silenzioso, le luci in sala sono ancora spente. La rappresentazione sta andando avanti, anche in questo sconvolgente scenario di verità. Quando la musica finisce davvero, il teatro è rimasto vuoto... ma sul fondo ancora si vede una ballerina intenta a provare. Il suo camerino è ancora illuminato; un lampadario di scena è lì per caso: sicché il cantuccio dove lei prova sembra un piccolo teatro a sua volta. E quindi ancora una trasformazione di prospettive: la rappresentazione fa ancora capolino sulla realtà (che, scusate se mi ripeto, era a sua volta rapprsentazione). Vertiginosa successione di due dimensioni (quella del reale e quella del virtuale) che si integrano e si completano...
Tutto questo lo potrete trovare, nel video dello spettacolo, dal minuto 8.20 del presente video. E vi assicuro che, a teatro nel 2004, era una cosa che il video (nel 2011) non rende.
Torniamo a noi. Don Giovanni è un po’ il punto d’arrivo di questo cammino iniziato nel 1991 con Tosca e poi proseguito con i Contes d’Hoffmann, con il Capriccio, l’Ariadne auf Naxos e Carmen. In questo caso il tema è ancora più drammatico e tormentoso, perché col Don Giovanni non ci limitiamo ad assistere alle interferenze fra realtà e finzione. Il punto di vista è diverso. Finzione e realtà si dichiarano guerra.
Una linea invisibile ma invalicalicabile divide in due un teatro. E’ la linea che corre lungo l’asse del proscenio, oltre la fosse d’orchestra. Di qua dalla linea c’è il pubblico, ci sono le poltrone della platea, ci sono i palchi. Oltre la linea c’è la scena e tutto ciò che le gravita intorno: camerini, fondali, sipari, quinte, macchinari, attrezzerie, impalcature per le luci, praticabili, costumi e soprattutto loro, i personaggi, gli attori, con le loro storie e le loro irreali vicende. È questa la zona riservata alla finzione, alla rappresentazione, all’arte. Lì Don Giovanni è il padrone indiscusso. Come un regista, un primattore, un Divo… domina l’universo del fittizio, vi si pavoneggia fiero e consapevole della sua onnipotenza, seguito – come un cagnolino scodinzolante – da un operario dello spettacolo, un Leporello-macchinista, che lo asseconda e lo riverisce come si conviene a una star.
In questa dimensione l'Artista (Don Giovanni) può creare la sua realtà (che è fittizia), crea le sue storie. Manipola i personaggi, ne organizza le vicende, ne anticipa le reazioni, per la semplice ragione che essi sono “solo” personaggi, ombre virtuali. Li veste e li sveste, li trascina sul palco a recitare fra sipari finti e impianti prospettici, li costringe a replicare le loro banali scenette di travestimenti, amori infelici e sentimenti esarcerbati. Ecco perché, in una regia così mi pare fuori luogo interrogarsi sulle passioni di Anna o sui tormenti di Masetto: non sono altro che "personaggi" su cui l'Artista esercita il suo imperio. I sipari dipinti dietro al quale Don Giovanni scompare e appare, sono il suo mondo. Così come la riproduzione del boccascena scaligero, sagomato in modo tale da risultare aperto al centro (dato che, come ogni boccascena, deve lasciar vedere la scenografia che sta dietro). Dietro al primo boccascena finto (che a sua volta è incastonato in quello “reale” della Scala) si apre un altro boccascena finto, dietro al quale se ne apre un altro… e così all’infinito, come nell’aria di Donna Elvira, fino a sparire in una sorta di eternità. E’ la virtuale inesauribilità dell’arte, che può all’infinito moltiplicare se stessa.
Di questo mondo, tripudio del fittizio, abbiamo detto che Don Giovanni è il padrone. Il suo potere (sulla finzione, sulla storia, sui personaggi, forse anche sul pubblico che lo guarda) è enorme. Eppure non gli basta. Ed è qui la sfida tragica, l'Ubris, di questo Don Giovanni. Se quello originale sfidava la morale degli uomini e a un certo punto anche quella di Dio, il Don Giovanni di Carsen non è da meno. L’artista è demiurgo e può creare e distruggere qualsiasi cosa… nel mondo del virtuale? Ma allora perché non anche in quello reale?
C’è un punto oltre il quale l’Arte non può più "creare"? Dov'è che la Realtà riprende i suoi diritti, annienta la rappresentazione e mette l’artista di fronte a se stesso? Per avere una risposta a questo interrogativo abbiamo dovuto attendere il finale dell’opera. Eppure, in verità, Carsen ce l’aveva già svelato da molto tempo. Da diabolico narratore egli è solito disseminare di indizi le sue regie: sul momento non ci dicono nulla ma alla fine, svelato il colpevole, ci tornano in mente e ci fanno dire: "come ho fatto a non capire!".
In una regia d'Opera non esiste momento più forte dell’incipit, perché il pubblico è fresco, eccitato, attentissimo. Qualsiasi cosa un regista faccia capitare all’inizio resterà impressa; e questo è vero soprattutto per l’Incipit di Don Giovanni, con quegli accordi sferzanti e quel tema della morte che, con le sue tortuosità tonali e il ritmo angoscioso, pone il pubblico in una tensione che niente più cancellerà. E’ proprio lì che, ripensandoci, Carsen ci aveva già detto tutto.
Cosa succede nelle primissime battute dello spettacolo? L’Artista, insomma Don Giovanni, si avventa sul sipario e lo fa crollare in terra. Cosa appare dietro? Dietro c’è l’altra metà del teatro, riflessa in uno specchio. E' la parte posta oltre quel confine di cui parlavamo, oltre la trincea che separa l'universo della finzione da quello del pubblico (ossia della realtà).
Riflesso nello specchio basculante noi vediamo, fin dall'inizio, il vero nemico di don Giovanni; ed è quella parte del teatro in cui si trova il reale, ...in cui ci troviamo NOI. Don Giovanni guarda a lungo quell’insieme di palchi, di persone vere. Lo guarda con sfida ed è un momento di puro terrore: è lui contro di noi! In quel momento il principe del fittizio che lancia la sua enorme provocazione contro la realtà. Ecco l’ubris. Non più il travaglio morale dell’eroe materialista che sfida i principi cardine della collettività. No! Ora è l’artista a cui non basta governare la realtà virtuale e che osa guardare oltre il confine invalicabile, nell'immenso buio della realtà.
In questi memorabili secondi, Don Giovanni - abbattuto il sipario - pianta gli occhi su quel riflesso possente, acceso, sinistro che è la cavea del teatro alla Scala. Sono due personaggi enormi che si stanno guardando (sul tema della morte). Uno è Don Giovanni, l'altro siamo noi: Signori, la Realtà! In quel riflesso possiamo vedere migliaia di occhi che sono lì a fissare in faccia l'eroe…muti e silenziosi. Sono i nostri occhi! Noi siamo chiamati in causa.... Noi siamo parte della rappresentazione. Noi siamo il deuteragonista di Don Giovanni. NOI - REALTA' - SIAMO DIVENTATI RAPPRESENTAZIONE.
Solo Carsen può trasformare il pubblico in un personaggio. E noi, con i nostri vestiti da première, i nostri sguardi attenti ed eccitati, severi e inquisitori, siamo lì, siamo un personaggio, sosteniamo lo sguardo di lui e gli piantiamo addosso il nostro: la sfida è cosmica. Lui - l'arte - e noi - la realtà.
Vado a teatro da tanti anni, ma non avevo mai visto niente del genere. Il protagonista mi guarda, mi sfida e io, confuso nella collettività che diventa un personaggio, ricambio il suo sguardo: e restiamo così, silenziosi e immobili, tesi e duri: gli occhi gli uni negli altri, in una lotta (Verità e finzione) che affonda nei secoli. L’effetto è così grandioso che, uscendo da teatro, verrebbe voglia di chiedere il cachet! Abbiamo recitato alla Scala, siamo stati il vero e unico deuteragonista di Don Giovanni.
Nell’atto successivo Don Giovanni dedica a noi (il pubblico / “la realtà”) la sua serenata. Fingerà persino di essere come noi, quando si accomoderà su una sedia per osservare dal proscenio i siparietti di tutti quei personaggi abbozzati e schematici che egli stesso ha creato! Visto? - pare dirsi l’artista sacrilego - sono tanto “vero”, tanto “reale” da potermi sedere come se fossi il pubblico e osservare l’artistica rappresentazione come fareste voi. Ma è sicuro, Don Giovanni, che noi – anzi la Realtà – accetteremo tutto questo? È sicuro che, fuori da quel teatro (o dalla "casa" del grande fratello) gli indirizzeremmo gli stessi applausi? No... Tocca a noi, pubblico, fermarlo. Tocca a noi fargli capire cos’è davvero la realtà e perché un personaggio come lui, eroe e autarca del fittizio, nel nostro mondo non può esistere. Noi uomini reali, magari anonimi, magari senza storia, magari destinati a soccombere al nulla, ma nondimeno - a differenza sua - reali.
E questa volta Carsen non si limita a farci recitare… Ci dà persino una voce. Sembra incredibile ma è così: noi pubbico non ci limitiamo più a contrastare l'artista-eroe con le nostre mille facce reali (riflesse nello specchio). Ora alziamo proprio la voce e gli pariamo contro il nostro “alt”. Ed eccoci infatti alla scena del cimitero.
Sul fondo, ancora una volta, risplende lo specchio basculante. Ancora una volta noi pubblico vediamo noi stessi mentre fissiamo Don Giovanni. Ma questa volta contro Don Giovanni, contro la sua sfida impudente, si leva anche la nostra voce. Il don Giovanni "vero" non si aspettava di sentir parlare una statua. E questo Don Giovanni, allo stesso modo, non si aspetta di sentir parlare il pubblico, solitamente zitto, controllato, strumento nelle sue mani. E invece, dalle nostre fila (e precisamente dal palco reale), si leva il tuono della Realtà: “Di rider finirai pria dell’aurora”. Dal centro della sala, in piedi nel palco reale, non il Commendatore ma - attraverso lui - tutti "noi che siamo" rispondiamo alla sfida che l'artista ci ha lanciato.
Incredibile scena finale. IL banchetto preparato da Don Giovanni è servito su uno stretto e lunghissimo tavolo che taglia in due, per la larghezza, tutto il teatro. Dove è posto questo tavolo? Proprio sulla “linea” divisoria che abbiamo individuato, il confine, la trincea fra i due universi. Solo che, ora, è cambiato lo sfondo. Alle spalle di Don Giovanni, non c’è più l’immagine del boccascena replicato (o un sipario finto, un palcoscenico vuoto, tutte immagini del “lato fittizio” del teatro), bensì la gigantografia della sala dove sta il pubblico, con platea e i palchi completamente vuoti. Perché questo cambiamento? Perché Don Giovanni, nel pieno della sua Ubris e attendendo il Commendatore, si è posto dall’altra parte, quella che – quando è piena – ospita la realtà.
Certo, essendo completamente vuota non fa ancora paura. E' la presenza del pubblico (messaggero del mondo reale) a renderla minacciosa. Donna Elvira, quando - volendo fuggire da Don Giovanni - si infila proprio nella porta sul fondo della platea (quella da cui il pubblico entra ed esce) lancia un urlo d'orrore. Cosa l’ha terrorizzata? Quale ombra l’ha fatta gridare? ... Leporello la insegue; si infila a sua volta nella porta della platea. Esce. Poco dopo si sentirà anche il suo urlo. Cosa avranno mai visto, l'una e l'altro, di così agghiacciante? Cosa c’è di più spaventoso - per un personaggio fittizio - che la vista della Realtà? Leporello rientrando (grande Terfel!) è come trasfigurato dal terrore, gli occhi sbarrati. E annuncia l'ingresso del più tremendo dei convitati! La verità è là fuori!
Quando entra il Commendatore la scena si trasforma ancora, e qui siamo davvero nel genio. E’ ancora rappresentata la cavea scaligera, ma non più una gigantografia tutta unita. Si tratta invece di tante gigantografie spezzate, sagomate come, nelle scene precedenti, erano stati i boccascena (ossia archi aperti al centro). In pratica è come se maldestramente fossero fuse insieme la parte fittizia (sagomatura di boccascena) e quella della realtà (l'immaine dei palchi) E' come se le due dimensioni si fracassassero l'una nell'altra.
Il commendatore è affiancato da una bara, la stessa nella quale (all’atto precedente) il suo corpo era stato portato via. L’avviso è perentorio: "vuoi la realtà, Don Giovanni? E allora dovrai accettarne il maggiore portato. Ossia, la morte. Nella finzione tu sei eterno, non puoi morire. Ma nella realtà l’uomo è condannato all'annientamento. Noi ci dissolviamo nel tempo, voi sulla scena vi rigenerate per sempre. Non siete reali, ma almeno siete eterni. Sei sicuro di poter affrontare la morte"?
Don Giovanni alla fine di questo confronto morirà. Prima era stato lui (nella finzione) a uccidere il commendatore, ma dove si trova ora (in bilico tra le due dimensioni) non comanda più sugli eventi. Quindi "prova" la morte. Ma nel sestetto finale ci si ripresenta ancora vivo: perché è finalmente tornato alla sua dimensione. Ora basta invidiare la realtà! Basta guardare oltre il confine del proscenio, nel buio della sala!! Ora Don Giovanni è tornato nel suo mondo, il teatro, nel quale può vivere per sempre, continuare a manipolare le sue creature, e addirittura far scendere loro al suo posto già all’inferno, donandoci il suo eterno ghigno divertito e lanciando per terra il mozzicone di una sigaretta.