Esiste il suono dell'ansia? Esiste il suono dell'angoscia? Esiste il suono dell'attesa? Ed esiste il suono del desiderio della luce?
Sì. E' tutto quanto Daniele Gatti ha evocato, mediante la straordinaria orchestra del Maggio e un cast compatto e totalmente dedito, nella sua lettura di Pelleas e Melisande andata in scena ieri sera a Firenze. Ansia, angoscia, attesa, luce sono, per Gatti nella musica di Debussy, elementi di teatro. Siamo lontanissimi dalla linea interpretativa estetizzante Karajan-Pretre, o da quella più "strutturale" Abbado-Boulez (tutti eccelsi, in Pelleas, ma differenti). Per Gatti, questa musica, questo rincorrersi di disegni e frasi musicali, è comunque teatro in musica. E il suo "Pelleas" si accende, in un suono denso - verrebbe da dire "carnoso", se il termine non fosse un po' eccessivo - nel quale il dettaglio (e tutto è dettagliatissimo) si fonde nell'insieme. Il Pelleas di Gatti, rispetto alla line degli "esteti", ha un "ritmo interno" ininterrotto, che viene dalla densità della pennellata ("denso" è anche il coro, nel suo breve intervento) e dalla "rotonda" continuità con cui una ritmo, una frase, si lega alla successiva. Teatro in musica: e Debussy teneva lo fosse. Dunque lettura nuova, ma pertinentissima.
"Rotonda". Il cerchio (l'anello, i cerchi d'acqua...) è, assieme al "desiderio di luce", un tema di questa lettura. Allora: rotondo è il suono, e nello stesso tempo - quasi ad esprimere il desiderio più volte espresso da Melisande - è un suono che vorrebbe esser luminoso ma resta cupo, come se la luce, quella che Melisande invoca e cerca, "premesse" per uscire, senza riuscirvi. Il che trova realizzazione, in scena, nel bellissimo cannocchiale-caleidoscopio inventato da Daniele Abbado e collaboratori alla parte scenica (un solo appunto: Pelleas nel solito paltò, di cappotti ne abbiamo visti troppi, ormai. Bene invece i costumi vagamente "da cacciatore" di Golaud). Che ha, fra l'altro, il gran merito di annullare, unito alla concertazione di Gatti, le note difficoltà acustiche buca-palco-sala del nuovo teatro fiorentino: stavolta si sente tutto benissimo, l'equilibrio voci-orchestra è perfetto, e dentro il cannocchiale le voci risultano
proiettate. Il cerco scenico e il suono denso-cupo- ricerca di luce (memorabili i timpani "sordi" voluti da Gatti) rendono bene il senso della calustrofobia del castello e della sofferenza di Melisande ("non sono felice, qui"). Per il resto, Abbado lascia al pubblico in toto il compito di immaginare ciò che non si vede, esempio preclaro i capelli lunghi di Melisande (la Bacelli conserva il suo taglio corto). Il castello, l'acqua e quant'altro sono solo evocati da giochi di luci: a chi vede è lasciato (ma l'orchestra di Gatti è un aiuto potente) il compito di vedere con gli occhi della mente ciò che in scena non si vede: il che è elemento di grande fascino.
Suono denso, colori (sia pur "spenti", nella densità): ad ogni personaggio è richiesto di esprimere un colore. Il Golaud del formidabile Frontali (altra prova d'affiatamento con Gatti dopo il Macbeth parigino) è nero-antracite, un nero che diventa selvaggio nell'assalto di gelosia e si spegne in un grigio doloroso nel finale. Il bruno (e questo è insolito) di Melisande, che qui è colei che cerca la luce: Bacelli bravissima nella parola, nel colore, nel gesto, a lei Abbado chiede, e ottiene, una recitazione da icona movente, bellissima nel gioco delle mani, della testa, del corpo. A lei "corrisponde", nella tinta, la Genevieve di Sonia Ganassi, che qui parrebbe una sorta di Melisande invecchiata, in un gioco di corrispondenze fra colori ed espressioni che è uno dei segnali interpretativi di questa lettura musicale (e scenica). Pelleas è colui che porta - porterebbe, ma finirà male - luce: ed ecco il canto schiarito di Paolo Fanale, che si conferma, di ruolo in ruolo, una delle migliori novità del teatro lirico di questi anni. Il "chiaro", in questo Pelleas, è affidato a lui e alla freschezza dell'Yniold di Silvia Frigato. C'è un colore della giovinezza e uno della vecchiaia. Così al grigio-nero del Golaud sofferente di vecchiaia incipiente ("i capelli grigi, la barba") di Frontali corrisponde quello dolente dell'Arkel di Roberto Scandiuzzi (Andrea Mastroni interpreta pastore e dottore).
marco vizzardelli