da FloriaTosca » lun 13 giu 2011, 23:12
Perdonatemi il ritardo, dovuto a vari impegni universitari. Ho assistito ai Vespri, anzi ai "Vepres", già un mesetto fa, e vorrei proporvi le mie impressioni, se non è troppo tardi!
L'impressione globale, al termine di quattro fatidiche ore di teatro, è stata entusiasticamente positiva. Lo spettacolo conclusivo della stagione, forse il più meritevole, è stato salutato con una standing ovation da parte di un pubblico folto e paziente, premiato da quelle "quattro ore e in francese" di ascolto tanto polemizzate dai più (ignoranti). E’ vero che i termini di paragone sono relativamente scarsi (il Teatro San Carlo si sta rialzando da un periodo di crisi economica ed artistica), ma è anche vero che questi Vespri sono stati un ottimo trampolino di lancio per la rinascita del teatro, senza deludere le aspettative dei frequentatori, gonfiate dalla lettura di "giornalini" pubblicitari (molto retorici, inneggianti ai 150 anni dall’Unità d’Italia) distribuiti fin nelle strade di Napoli per attirare quel pubblico così pigro.
Il primo pregio a colpo d'occhio è stata la scenografia. Recuperando del materiale utilizzato nel 2004 presso il Massimo di Palermo (un'edizione italiana dei Vespri di non tale successo) sul palco sono stati ricostruiti imponenti archi ogivali, le cancellate di una prigione e pareti di chiese mosaicate, alte quasi fino al soffitto. Si voleva trasportare la scena proprio in quel tredicesimo secolo raccontato da Verdi, impresa poco sperimentata dagli scenografi odierni che prediligono l’ambientazione ottocentesca. I motivi artistici si ispiravano al siciliano duomo di Monreale, ricco di influssi figurativi stranieri (arabi per lo più) che evidenziavano lo scenario di conquista della martoriata Sicilia. Il tutto con un risultato di grande effetto, pomposo e realistico al tempo stesso. Dietro alle costruzioni, un piacevole effetto di carta increspata e illuminata offriva un delizioso scenario marittimo, simile allo sfondo realizzato negli anni ’90 alla Scala per la più nota versione italiana diretta da Muti, ma con l'ulteriore, suggestivo effetto dinamico del movimento delle onde del mare. Per nostra fortuna, la bandiera francese è stata risparmiata (a differenza della edizione alla Scala, che ho potuto vedere in dvd): sarebbe stata un vessillo anacronistico per un episodio riportato, come gli spetta, al tredicesimo secolo. Gli stranieri conquistatori erano riconoscibili dalle armature lucenti che indossavano numerose comparse di scena, mentre il popolo siciliano si presentava solare, ricco di colori, in una gran varietà di tuniche vivaci di gusto medievale. L’artefice dei costumi, Franca Squarciapino, meritava una menzione speciale. Sapiente il gioco delle luci del quarto atto, nella cupa prigione, ma anche quello dorato che splendeva sui mosaici del duomo di Montreal nell’ultimo atto. Degna cornice della unità drammatica e recitativa dei suoi protagonisti: non se ne vedevano più di scene così dinamiche, personaggi e coro in armonico movimento sul palcoscenico, una tensione emotiva convincente e di gran teatro. Sapendo come lavora Gelmetti, posso intuire che si tratti in gran parte di farina del suo sacco.
Passiamo ora al succo: le voci. La grande delusione della serata è stata Alexandrina Pendatchanska (Helène), il soprano protagonista: ha meritato i fischi e quel silenzio raggelante alla fine della prima aria, da cui si attendeva quel battito di mani di rito, alla fine pervenuto un po’ smorzato. Una vera delusione, date le voci che si sentono sul suo conto: una enfant prodige, una rivelazione, una reinventatrice del canto di coloratura depurata da trilli barocchi... in realtà la voce passava appena l'orchestra (il mio palco era assai vicino) e per ogni acuto gonfiava i polmoni in maniera plateale (mai visto fare ad alcun'altra) come se fosse stato un notevole sforzo fisico. Acuti peraltro non dispensati in grande quantità: il timbro dominante era grave, spento, come se avesse dimenticato la propria esperienza canora e si fosse cimentata per la prima volta in un ruolo inaccostabile. Dubito che un tempo non fosse stata capace come prima donna nel canto di coloratura; ormai, rimane una cantante in grado di fare impietosamente a pezzi uno storico bolero, che era stato deliziosamente accelerato dal direttore Gelmetti, ritmo che faticava a seguire, vanificandone l'effetto luminoso.
La serata è stata portata a casa da Dario Solari (Montfort, baritono) e da Gregory Kunde (tenore, nel ruolo protagonista di suo figlio). Confermo i miei pareri su Solari: grande rivelazione, scala il panorama lirico italiano con grandi meriti, dispensandoci il suo timbro ora gentile, ora plastico, pieno, lucido, sempre commovente. Perfetto nelle figure paterne verdiane: già aveva fatto un bagno di applausi al San Carlo con il suo Giorgio Germont nella Traviata della passata stagione. Penso di poter definire il suo “valore aggiunto”, rispetto agli altri baritoni in circolazione, nel carattere di umanità che esprime la sua voce, priva di ogni cupa artificiosità che spesso si sente nei baritoni più marcati. Il suo volume pieno e deciso ha conquistato ancora una volta cuori e menti del pubblico. Eppure l'estrema drammaticità e infinita tenerezza del terzo atto, scena della rivelazione di Montfort quale padre di Henry, non sarebbe stata completa senza la matura esperienza di Gregory Kunde. Il tenore aveva già presenziato al San Carlo come protagonista della prima dell’anno precedente (La Clemenza di Tito, diretta da Jeffrey Tate), ma seppur di pregevole presenza non aveva indovinato lo stile mozartiano del personaggio, reinventato con una linea troppo lirica. Direi che il personaggio verdiano gli calza a pennello: un energico connubio di idealismo romantico ora languido ora intrepido, eroe verdiano in cui il buon vecchio Kunde ha saputo reinventarsi con onore. Insomma, tecnica e interpretazione convincenti per un “fuoriclasse” che “sembrava” avviarsi al tramonto della carriera.
Molto applaudito anche il personaggio di Procida. Il baritono Orlin Anastassov, assai più giovane del collega baritono, con disinvoltura si distingue da lui anche per il timbro più grave e asciutto, esprimendo tutta la sua cupezza che impregna il personaggio. Voce dura, aspra, per i miei gusti forse troppo per i languori di “O tu Palermo”, o forse troppo ben indovinati per un “eroe romantico” che di amore conosce solo quello patrio, al contrario di Henry, nonché motore fondamentale della storia e del finale, supera la prova in maniera convincente e con grande trasporto emotivo del pubblico.
Chi era il punto fermo in questa grande varietà di stili vocali? Sul palco, il coro, un arcobaleno di tuniche color pastello, stavolta in grado di controllarsi e di non sommergere le voci dei protagonisti; nel golfo mistico, il direttore, ragione ultima del successo. Mi ero in passato interessata al maestro Gelmetti e avevo trovato qualche filmato su youtube che riprendeva i suoi “dietro le quinte”, impegnato a dirigere le prove di canto: mi aveva colpito la determinazione nell’infondere al cantante il carattere del personaggio, la stessa passione che doveva essere rivolta al pubblico era quella che ispirava il suo lavoro. So che è mansione del direttore suggerire, oltre alle linee strettamente musicali di canto, la caratterizzazione dei personaggi, ma qualcosa di più vivo, di più viscerale, era riuscito a trasmetterla. Una vivacità emotiva e intellettuale che ha fatto risorgere le potenzialità dell’orchestra del San Carlo dal torpore che aveva conosciuto in alcune precedenti performance, soffrendo i continui cambi di direzione artistica. Percussioni abbondantemente sottolineate, forza negli archi, leitmotiv calcati e ritmi accelerati (soprattutto nel bolero) sono stati gli elementi caratterizzanti.
Cosa manca alla recensione? Direi il balletto. Tanto atteso dai melomani, tante volte ingiustamente tagliato in passato, e oserei sottolineare ingiustamente! Non mi riferisco tanto alla coreografia, non essendo io una appassionata di balletto, quanto alla melodia. Le quattro stagioni di Verdi sono suggestive, incantevoli, hanno il sapore dell’ineluttabilità e dell’amarezza del tempo che scorre, la luminosità delle stagioni giovani, come se avesse voluto racchiudere tutte le contraddizioni e i sentimenti in conflitto di una lunga, intera opera in un pezzo compatto e nient’affatto di “intrattenimento”! Ad un ascolto attento, mi verrebbe ormai da dire che gli schemi della Grand Opera a Verdi stavano stretti… non che detestasse comporre per l’Opera parigina (non lo direi mai, dato anche il successivo Don Carlo), ma annacquare un segmento del suo lavoro con una melodia di intrattenimento per accompagnare un balletto, come richiedeva lo schema in cinque atti, sarebbe stato un’offesa per la meraviglia che la conteneva. Per questo auspico che sia rivalutato il terzo atto per riscavarlo dall’oblio, magari proponendo il pezzo delle stagioni isolatamente, nelle esecuzioni sinfoniche, come già si fa per la splendida overture. Il balletto (non vorrei offendere qualche amante del genere, ma) lo trovo abbastanza superfluo nel prodotto complessivo; è sicuramente molto piacevole, anche distensivo per il mal di schiena che dopo un paio d’ore su una sediolina di palchetto comincia a farsi sentire, ma risente delle “avanguardie” artistiche che hanno invaso l’arte della danza. Alludo alla scelta discutibile di far danzare i ballerini con dei costumi delle dimensioni e delle sembianze di tanti boxer colorati (scelta cui erano state sottratte le ballerine, fortunatamente) e ad un’ardua metafora sulla vita e la morte spiegata nel libretto di sala che vi risparmierò. L’ondata avanguardistica, per fortuna, non aveva travolto anche i movimenti e le armonie dei tradizionali passi di danza.
Mi auguro di non avervi annoiato troppo e di non aver scritto troppe corbellerie!
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FloriaTosca il lun 13 giu 2011, 23:23, modificato 1 volta in totale.