Ma quale ..."Età dell'Oro"!

Io credo che sia arrivato il momento di mettere in discussione, una volta per tutte, la mitizzazione del periodo interbellico (anni '20-'30) come stagione aurea dell'interpretazione operistica.
Io non sono affatto d'accordo.
Secondo me, quelli furono anni di stasi, di enfasi, in cui - come ho detto più volte - il magniloquio prese il posto della creatività.
Il canto, seguendo come sempre le sollecitazioni della storia, ha smesso di sperimentare linguaggi e si è lasciato condizionare dall'enfasi del gigantismo e il chiasso della celebrazione che aveva intaccato la dialettica politica delle prime dittature o democrazie di massa.
Quello che mi fa sorridere è che tutti oggi ci distacchiamo con sdegno dalla retorica sovietica dell'epoca, come da quella fascista, nazista e franchista; ci distacchiamo persino dall'ondata di patriottismo populista e arrogante che, con la grande depressione e col New Deal, cominciò a intaccare il dibattito americano.
In compenso andiamo in brodo di giuggiole a sentire il canto di quegli anni, perfettamente asservito a quella magniloquenza, a quella esteriorità, a quella pomposità tronfia e a quella staticità populista.
Mai - dai primi del 900 a oggi - i cantanti d'Opera sono parsi tanto bolsi e pretenziosi come in quegli anni, nella programmatica ampollosità degli accenti e delle sonortà. Mai l'interpretazione operistica era parsa tanto bloccata in clichés retorici.
E soprattutto mai, secondo me, l'umanità - con la sua complessità - è stata tanto distante dal canto.
Lo so anche io che quel gigantismo affascina, qui suoni tutti potenti, tutti rotondi e scultorei... così come (ci piaccia o meno) affascinava la retorica gridata dei Leader dell'epoca, o le grandi parate di stato, le esibizioni dell'esercito.
Ma, diciamocelo una buona volta, nell'arte la retorica del grandioso e il culto della celebrazione uccidono la profondità e la complessità.
Più si mette un personaggio su un piedistallo, più lo si fa "trombonare" da altezze super-eroiche, meno si dovrà riflettere sulla varietà delle sue motivazioni.
Più si amantano i suoni di pompa spettacolare, meno si dovrà poi scavare e ricervcare nelle possibilità della voce.
Più si congela il fraseggio in accademiche ridondanze, meno ci si dovrà occupare di evocare la vera emozione.
Poi, è chiaro...
Quando si parla di crisi o di splendori in un'epoca, si deve sempre premettere che si procede per generalizzazioni.
So benissimo, ad esempio, che se parlo di "crisi" nel ventennio 20-40, mi si potranno ritorcere contro decine di grandissimi artisti di quell'epoca.
Così come se parlo di splendore nel dopoguerra (45-65) mi si potranno citare decine di pessimi cantanti famosi in quel periodo.
Io stesso adoro molti artisti del periodo (così come ne odio altri di epoche precedenti o successive).
Però vorrei che non ci fondassimo sui singoli artisti, ma su tendenze generali...
E di giudicare coerentemente il complesso di un'epoca.
Cosa ci offre in fondo il ventennio del magniloquio?
Il repertorio si è ristretto in modo spaventoso (la crisi della composizione inizia lì); Wagner ha perso tutto il fascino dell'eversione e della modernità diventado - grazie al Wagner Internazionale - un Colossal fatto di ciccioni e ciccione sessantenni, con elmi e trecce, irriso e sbeffeggiato dai veri avanguardisti dell'epoca; Verdi e il verismo italiano divennero palestre di pacchianate. Il belcanto venne praticamente affossato, e quel che rimaneva era affidato a cinguettamenti del tutto anti-drammatici, che a loro volta rientravano nella retorica dell'esteriorità.
Ok, anche io sento il fascino dei tenori "vocalisti" tedeschi. Ma anche in Roswaenge non sentite comunque, a parte tutto, che l'ossessione del superomismo prevale sull'umanità e sulla complessità dei personaggi? In Tauber non avete mai la sensazione che il compiacimento del suonone, della retorica sfumatissima, dei preziosismi iperdinamici... prevalga sulla vera emozione?
Poi, per carità, Dio benedica Roswaenge e Tauber... ma la "crisi" dei tempi, l'esteriorità, la retorica... si avverte anche su di loro.
Idem per i Pertile e gli Schipa.
Ok, d'accordo, geniali e genialmente espressivi... ma anche nel loro caso la retorica dell'espressione prevale su ciò che si dovrebbe esprimere.
Lo stesso discorso per la travolgente Lotte Lehmann... travolgente per come esprime, meno per ciò che esprime, che in fondo è sempre la solita intensità passionale cinematografica. Stesso discorso, mutatis mutandis, per Kozlowski e per i compiaciutissimi russi del periodo...
Tutte quelle esaltazioni, quegli sdilinquimenti, quelle sonorità possenti, quei legatoni atletici... mi stancano.
Viva la Ponselle! Siamo tutti ai suoi piedi. Ma non è che la sua Norma, la sua Vestale siano molto di più che finissimi blocchi di marmo?
E notate che finora ho citato solo i cantanti che adoro...
Dov'è finita la lucidità corrosiva, l'ironia, la sperimentazione, il coraggio dei cantanti precedenti la prima guerra mondiale?
E dov'è la frenesia intellettuale e tecnica di quelli degli anni '50?
Nel ventennio 20-40, magniloquente e populista, si punta - è vero - al gigantismo canoro, all'estremizzazione (e congelamento) dell'enfasi, ma a danno di ciò che il canto dovrebbe veramente esprimere e che infatti esprimeva nella musica pop, jazz, afro-americana.
Il mito dell'età dell'ora, ahimé, sopravvive soprattutto in quelli che nell'opera cercano solo questo: non l'emozione, non la ricerca, ma la sensazione di una confortevole grandezza da cui lasciarsi cullare, per cui non dover pensare.
Mi piacerebbe che approfondissimo la questione, magari con esempi di cantanti e di repertori.
Salutoni,
Mat
Io non sono affatto d'accordo.
Secondo me, quelli furono anni di stasi, di enfasi, in cui - come ho detto più volte - il magniloquio prese il posto della creatività.
Il canto, seguendo come sempre le sollecitazioni della storia, ha smesso di sperimentare linguaggi e si è lasciato condizionare dall'enfasi del gigantismo e il chiasso della celebrazione che aveva intaccato la dialettica politica delle prime dittature o democrazie di massa.
Quello che mi fa sorridere è che tutti oggi ci distacchiamo con sdegno dalla retorica sovietica dell'epoca, come da quella fascista, nazista e franchista; ci distacchiamo persino dall'ondata di patriottismo populista e arrogante che, con la grande depressione e col New Deal, cominciò a intaccare il dibattito americano.
In compenso andiamo in brodo di giuggiole a sentire il canto di quegli anni, perfettamente asservito a quella magniloquenza, a quella esteriorità, a quella pomposità tronfia e a quella staticità populista.
Mai - dai primi del 900 a oggi - i cantanti d'Opera sono parsi tanto bolsi e pretenziosi come in quegli anni, nella programmatica ampollosità degli accenti e delle sonortà. Mai l'interpretazione operistica era parsa tanto bloccata in clichés retorici.
E soprattutto mai, secondo me, l'umanità - con la sua complessità - è stata tanto distante dal canto.
Lo so anche io che quel gigantismo affascina, qui suoni tutti potenti, tutti rotondi e scultorei... così come (ci piaccia o meno) affascinava la retorica gridata dei Leader dell'epoca, o le grandi parate di stato, le esibizioni dell'esercito.
Ma, diciamocelo una buona volta, nell'arte la retorica del grandioso e il culto della celebrazione uccidono la profondità e la complessità.
Più si mette un personaggio su un piedistallo, più lo si fa "trombonare" da altezze super-eroiche, meno si dovrà riflettere sulla varietà delle sue motivazioni.
Più si amantano i suoni di pompa spettacolare, meno si dovrà poi scavare e ricervcare nelle possibilità della voce.
Più si congela il fraseggio in accademiche ridondanze, meno ci si dovrà occupare di evocare la vera emozione.
Poi, è chiaro...
Quando si parla di crisi o di splendori in un'epoca, si deve sempre premettere che si procede per generalizzazioni.
So benissimo, ad esempio, che se parlo di "crisi" nel ventennio 20-40, mi si potranno ritorcere contro decine di grandissimi artisti di quell'epoca.
Così come se parlo di splendore nel dopoguerra (45-65) mi si potranno citare decine di pessimi cantanti famosi in quel periodo.
Io stesso adoro molti artisti del periodo (così come ne odio altri di epoche precedenti o successive).
Però vorrei che non ci fondassimo sui singoli artisti, ma su tendenze generali...
E di giudicare coerentemente il complesso di un'epoca.
Cosa ci offre in fondo il ventennio del magniloquio?
Il repertorio si è ristretto in modo spaventoso (la crisi della composizione inizia lì); Wagner ha perso tutto il fascino dell'eversione e della modernità diventado - grazie al Wagner Internazionale - un Colossal fatto di ciccioni e ciccione sessantenni, con elmi e trecce, irriso e sbeffeggiato dai veri avanguardisti dell'epoca; Verdi e il verismo italiano divennero palestre di pacchianate. Il belcanto venne praticamente affossato, e quel che rimaneva era affidato a cinguettamenti del tutto anti-drammatici, che a loro volta rientravano nella retorica dell'esteriorità.
Ok, anche io sento il fascino dei tenori "vocalisti" tedeschi. Ma anche in Roswaenge non sentite comunque, a parte tutto, che l'ossessione del superomismo prevale sull'umanità e sulla complessità dei personaggi? In Tauber non avete mai la sensazione che il compiacimento del suonone, della retorica sfumatissima, dei preziosismi iperdinamici... prevalga sulla vera emozione?
Poi, per carità, Dio benedica Roswaenge e Tauber... ma la "crisi" dei tempi, l'esteriorità, la retorica... si avverte anche su di loro.
Idem per i Pertile e gli Schipa.
Ok, d'accordo, geniali e genialmente espressivi... ma anche nel loro caso la retorica dell'espressione prevale su ciò che si dovrebbe esprimere.
Lo stesso discorso per la travolgente Lotte Lehmann... travolgente per come esprime, meno per ciò che esprime, che in fondo è sempre la solita intensità passionale cinematografica. Stesso discorso, mutatis mutandis, per Kozlowski e per i compiaciutissimi russi del periodo...
Tutte quelle esaltazioni, quegli sdilinquimenti, quelle sonorità possenti, quei legatoni atletici... mi stancano.
Viva la Ponselle! Siamo tutti ai suoi piedi. Ma non è che la sua Norma, la sua Vestale siano molto di più che finissimi blocchi di marmo?
E notate che finora ho citato solo i cantanti che adoro...
Dov'è finita la lucidità corrosiva, l'ironia, la sperimentazione, il coraggio dei cantanti precedenti la prima guerra mondiale?
E dov'è la frenesia intellettuale e tecnica di quelli degli anni '50?
Nel ventennio 20-40, magniloquente e populista, si punta - è vero - al gigantismo canoro, all'estremizzazione (e congelamento) dell'enfasi, ma a danno di ciò che il canto dovrebbe veramente esprimere e che infatti esprimeva nella musica pop, jazz, afro-americana.
Il mito dell'età dell'ora, ahimé, sopravvive soprattutto in quelli che nell'opera cercano solo questo: non l'emozione, non la ricerca, ma la sensazione di una confortevole grandezza da cui lasciarsi cullare, per cui non dover pensare.
Mi piacerebbe che approfondissimo la questione, magari con esempi di cantanti e di repertori.
Salutoni,
Mat