Accademici e Interpretazione

Rileggendo un vecchio post di Knap57, che a suo tempo mi era sfuggito, mi è parso giusto recuperare il problema che vi era sfiorato.
E' un problema che molti hanno potuto constatare di persona.
Ecco cosa scriveva Knap.
Ti posso dire la mia, nell'attesa che altri abbiano qualcosa da aggiungere.
L'ambiente accademico si porta dietro, per incredibile che possa sembrare, un pregiudizio che risale a tanto, tantissimo tempo fa.
Il pregiudizio di matrice idealistica per cui la superiorità "autorale", parlando di opere, è del compositore, ossia colui che l'ha pensata, colui che l'ha scritta.
Per lungo tempo anche il librettista era considerato di serie B.
Figuriamoci l'interpretazione, che finisce per essere una forma di sotto-arte, da lasciare ai poveri melomani.
Magari lo negano, ma ancora oggi questa visione ha il sopravvento.
Tanto che, con mia grande sorpresa, ho conosciuto illustri studiosi in grado di sezionare una partitura o analizzarne al microscopio ogni aspetto armonico, ma assolutamente inconsapevoli della sua storia interpretativa, dei secoli di sopravvivenza di un titolo attraverso l'evolvere dei pubblici e delle società.
Quando andavo all'università, rimanevo regolarmente sconcertato a sentire lezioni bellissime di grandi accademici che scavavano fra le pieghe (che so) del Trovatore, sviscerandone ogni aspetto letterario e armonico, e poi sentirli dire banalità allucinanti sui maggiori interpreti, robe da loggionista alle prime armi: salvare mezzosopranoni di loggione, soprani anti-belcantistici, tenori declamatori e direttori dal taglio antidiluviano.
O a scoprire che non solo non avevano mai ascoltato la Klose e Wittrich, ma che nemmeno li avevano sentiti nominare.
Ricordo ancora tanti anni fa (all'epoca del Fidelio di Muti alla Scala) quando sentii uno fra gli storici di Beethoven più celebri e famosi, un vero decano della musicologia italiana che in diretta radiofonica affermò - con mio sgomento - di essere molto ammirato da questa "giovane artista"... la Meier (evidentemente mai sentita nominare prima) elogiandone la perfetta aderenza "stilistica"... (una Wagneriana? lontaissima dalle specificità del ruolo? in difetto di note e agilità?).
Per quanto riguarda il Primo 800 italiano, dopo Gossett si è mosso qualcosa.
Anche fra i ricercatori è esplosa una sorta di Diva-mania, che porta moltissimi di loro (specialmente fra le nuove leve) a riflettere sulla Pasta e sulla Colbran.
Sul momento ne sono stato felice, perché vi leggevo - per la prima volta da parte degli accademici - una presa di coscienza della centralità dell'interprete nella storia dell'Opera, del suo fondamentale contributo "creativo" e di quanto i suoi modelli influissero sulla stessa composizione.
Ma poi mi sono dovuto ricredere: c'è qualcosa di stucchevole e irritante per esempio nel modo con cui chiunque parla e straparla della Colbran o degli altri interpreti rossiniani, anche perché si finisce per esasperare solo gli aspetti gossipari e celebrativi, accanendosi (giustamente, per carità) su certi snodi della scrittura, sull'analisi delle varianti d'autore (su misura di qualche divo) e su problematiche biografico-contrattuali, quasi che i cantanti fossero per il compositore e per lo studioso un divertente problema da risolvere, una "sfida" da vincere e non un modello anche poetico a cui attingere.
Da questo punto di vista, il contributo di Gossett (che inizialmente mi era parso rivelatore e liberatorio) ha finito per peggiorare la situzione invece che migliorarla, perché ha avvalorato il vecchio pregiudizio della superiorità letteraria su quella teatrale.
I cantanti - e addirittura i creatori - sono ora "studiati" ma soltanto come ...bellissimi e simpatici accidenti sul cammino di un compositore.
Come dire: sapete... Rossini ha scritto così questo pezzo non solo perché era obbligato da contratto a..., doveva accontentare il committente che..., non poteva sfidare la censura la quale..., ma anche perché aveva un cantante così e così, che pretendeva questo e quello, e che non aveva quella nota in compenso sapeva fare quell'agilità...
Ecco un bel modo di ridurre ai minimi termini il contributo "di creazione" vera e propria che pure l'interprete ha.
Un modo per non riconoscere che
1) il suo modello incide sui contenuti di un testo, sugli equilibri drammaturgici, sulla poetica stessa di un'opera, ben più di quanto non si voglia ammettere
2) che una volta che l'opera è scritta, che il compositore ne ha ceduto i diritti, essa va avanti per secoli: e non certo con le sue gambe, ma saltando sulle spalle degli interpreti, i quali le impongono le proprie scelte, la sovrastano con la loro personalità, ne forzano i contenuti e spesso anche la scrittura eppure, così facendo, NE AUTORIZZANO LA SOPRAVVIVENZA (cosa che l'autore, morto e sepolto, non potrebbe più fare).
Quest'ultimo aspetto temo che terrorizzi gli studiosi... perché accettarlo vorrebbe dire ridimensionare la presunta superiorità estetica del compositore (su cui da più di un secolo fondano tutte le loro ricerche, tutti gli strumenti della musicologia e tutto il loro modo di pensare).
E costringerebbe persino a rivedere il principio di "autorità" (di chi è il "pensiero" dominante in un'opera? Quello di chi l'ha scritta o quelli successivi di chi ne rende possibile per secoli la fruizione al pubblico? L'Opera deve considerarsi "fatta" nel momento in cui è composta o in quello in cui è rappresentata e dunque ascoltata dal pubblico a cui è rivolta? E se è vera la seconda ipotesi, chi ha la responsabilità ultima del suo "pensiero" se non il cosiddetto interprete?).
Più frequenterai accademici e semplici appassionati, caro Knap, più ti renderai conto che - sul fronte interpretativo - i secondi ne sanno molto più dei primi.
E non parlo solo di cantanti, ma anche di registi, scenografi e direttori.
E la situazione non cambierà finché anche gli accademici non ammetteranno che anche l'interpretazione "é" creazione: come i compositori creano segni sulla carta, così gli interpreti creano suoni e immagini, e sono gli ultimi responsabili del vero teatro e vera musica (cosa ben diversa dalla "letteratura" di librettisti e compositori).
Il fatto che la "creatività" dell''interprete si eserciti su qualcosa di già esistente (lo spartito e le sue note) non la rende meno potente e ...creativa.
Lo dimostra il fatto che anche lo Spartito d'Opera non è libero, ma si esercita su qualcosa di già esistente (il libretto e i suoi versi); questo non ci impedisce di considerare Mozart e Strauss "creatori" e "autori" a tutti gli effetti.
Io almeno la vedo così.
Salutoni,
Mat
E' un problema che molti hanno potuto constatare di persona.
Ecco cosa scriveva Knap.
knap57 ha scritto:Il problema generale infatti sussiste nel poter parlare di interpretazione senza parlare del canto dei vari interpreti, ossia dell'evoluzione anche del modo di cantare Wagner, cosa che il Giudici espone egregiamente nell'analisi delle varie edizioni.
Ma in campo accademico i docenti di musicologia sembrano voler allontanarsi dalla cosiddetta "vociologia" e restare più vicini all'interpretazione registica e musicale( la bacchetta)...ma non trovate questo molto riduttivo?
Ti posso dire la mia, nell'attesa che altri abbiano qualcosa da aggiungere.
L'ambiente accademico si porta dietro, per incredibile che possa sembrare, un pregiudizio che risale a tanto, tantissimo tempo fa.
Il pregiudizio di matrice idealistica per cui la superiorità "autorale", parlando di opere, è del compositore, ossia colui che l'ha pensata, colui che l'ha scritta.
Per lungo tempo anche il librettista era considerato di serie B.
Figuriamoci l'interpretazione, che finisce per essere una forma di sotto-arte, da lasciare ai poveri melomani.
Magari lo negano, ma ancora oggi questa visione ha il sopravvento.
Tanto che, con mia grande sorpresa, ho conosciuto illustri studiosi in grado di sezionare una partitura o analizzarne al microscopio ogni aspetto armonico, ma assolutamente inconsapevoli della sua storia interpretativa, dei secoli di sopravvivenza di un titolo attraverso l'evolvere dei pubblici e delle società.
Quando andavo all'università, rimanevo regolarmente sconcertato a sentire lezioni bellissime di grandi accademici che scavavano fra le pieghe (che so) del Trovatore, sviscerandone ogni aspetto letterario e armonico, e poi sentirli dire banalità allucinanti sui maggiori interpreti, robe da loggionista alle prime armi: salvare mezzosopranoni di loggione, soprani anti-belcantistici, tenori declamatori e direttori dal taglio antidiluviano.
O a scoprire che non solo non avevano mai ascoltato la Klose e Wittrich, ma che nemmeno li avevano sentiti nominare.
Ricordo ancora tanti anni fa (all'epoca del Fidelio di Muti alla Scala) quando sentii uno fra gli storici di Beethoven più celebri e famosi, un vero decano della musicologia italiana che in diretta radiofonica affermò - con mio sgomento - di essere molto ammirato da questa "giovane artista"... la Meier (evidentemente mai sentita nominare prima) elogiandone la perfetta aderenza "stilistica"... (una Wagneriana? lontaissima dalle specificità del ruolo? in difetto di note e agilità?).
Per quanto riguarda il Primo 800 italiano, dopo Gossett si è mosso qualcosa.
Anche fra i ricercatori è esplosa una sorta di Diva-mania, che porta moltissimi di loro (specialmente fra le nuove leve) a riflettere sulla Pasta e sulla Colbran.
Sul momento ne sono stato felice, perché vi leggevo - per la prima volta da parte degli accademici - una presa di coscienza della centralità dell'interprete nella storia dell'Opera, del suo fondamentale contributo "creativo" e di quanto i suoi modelli influissero sulla stessa composizione.
Ma poi mi sono dovuto ricredere: c'è qualcosa di stucchevole e irritante per esempio nel modo con cui chiunque parla e straparla della Colbran o degli altri interpreti rossiniani, anche perché si finisce per esasperare solo gli aspetti gossipari e celebrativi, accanendosi (giustamente, per carità) su certi snodi della scrittura, sull'analisi delle varianti d'autore (su misura di qualche divo) e su problematiche biografico-contrattuali, quasi che i cantanti fossero per il compositore e per lo studioso un divertente problema da risolvere, una "sfida" da vincere e non un modello anche poetico a cui attingere.
Da questo punto di vista, il contributo di Gossett (che inizialmente mi era parso rivelatore e liberatorio) ha finito per peggiorare la situzione invece che migliorarla, perché ha avvalorato il vecchio pregiudizio della superiorità letteraria su quella teatrale.
I cantanti - e addirittura i creatori - sono ora "studiati" ma soltanto come ...bellissimi e simpatici accidenti sul cammino di un compositore.
Come dire: sapete... Rossini ha scritto così questo pezzo non solo perché era obbligato da contratto a..., doveva accontentare il committente che..., non poteva sfidare la censura la quale..., ma anche perché aveva un cantante così e così, che pretendeva questo e quello, e che non aveva quella nota in compenso sapeva fare quell'agilità...
Ecco un bel modo di ridurre ai minimi termini il contributo "di creazione" vera e propria che pure l'interprete ha.
Un modo per non riconoscere che
1) il suo modello incide sui contenuti di un testo, sugli equilibri drammaturgici, sulla poetica stessa di un'opera, ben più di quanto non si voglia ammettere
2) che una volta che l'opera è scritta, che il compositore ne ha ceduto i diritti, essa va avanti per secoli: e non certo con le sue gambe, ma saltando sulle spalle degli interpreti, i quali le impongono le proprie scelte, la sovrastano con la loro personalità, ne forzano i contenuti e spesso anche la scrittura eppure, così facendo, NE AUTORIZZANO LA SOPRAVVIVENZA (cosa che l'autore, morto e sepolto, non potrebbe più fare).
Quest'ultimo aspetto temo che terrorizzi gli studiosi... perché accettarlo vorrebbe dire ridimensionare la presunta superiorità estetica del compositore (su cui da più di un secolo fondano tutte le loro ricerche, tutti gli strumenti della musicologia e tutto il loro modo di pensare).
E costringerebbe persino a rivedere il principio di "autorità" (di chi è il "pensiero" dominante in un'opera? Quello di chi l'ha scritta o quelli successivi di chi ne rende possibile per secoli la fruizione al pubblico? L'Opera deve considerarsi "fatta" nel momento in cui è composta o in quello in cui è rappresentata e dunque ascoltata dal pubblico a cui è rivolta? E se è vera la seconda ipotesi, chi ha la responsabilità ultima del suo "pensiero" se non il cosiddetto interprete?).
Più frequenterai accademici e semplici appassionati, caro Knap, più ti renderai conto che - sul fronte interpretativo - i secondi ne sanno molto più dei primi.
E non parlo solo di cantanti, ma anche di registi, scenografi e direttori.
E la situazione non cambierà finché anche gli accademici non ammetteranno che anche l'interpretazione "é" creazione: come i compositori creano segni sulla carta, così gli interpreti creano suoni e immagini, e sono gli ultimi responsabili del vero teatro e vera musica (cosa ben diversa dalla "letteratura" di librettisti e compositori).
Il fatto che la "creatività" dell''interprete si eserciti su qualcosa di già esistente (lo spartito e le sue note) non la rende meno potente e ...creativa.
Lo dimostra il fatto che anche lo Spartito d'Opera non è libero, ma si esercita su qualcosa di già esistente (il libretto e i suoi versi); questo non ci impedisce di considerare Mozart e Strauss "creatori" e "autori" a tutti gli effetti.
Io almeno la vedo così.
Salutoni,
Mat