Ohh-là!
Sono contento di aver sollevato un po' di dibattito anche in assenza del vero e unico Principe del Forum!
La risposta di Beck - come del resto quella di Tuc - denota un interesse per la materia che mi fa piacere.
I problemi sollevati, poi, sono di assoluto rilievo e ben espressi. Proverò a rispondere
beckmesser ha scritto: Celletti considerava “canto” solo una certa emissione, la Varnay non emetteva quei suoni, ergo “urlava”. Mezzo mondo la osannava comunque? Tant pis per mezzo mondo, che veniva declassato a gruppetto di semplicetti turlupinato dalle case discografiche
Eccoeccoecco. Credo che Beck abbia centrato alla perfezione il nocciolo del problema. Il mio desiderio è sempre stato quello di rifuggire il concetto di "scuola": ormai
ce lo sappiamo per cui non ce lo raccontiamo di nuovo. Naturalmente, nel rispetto sovrano dei gusti
beckmesser ha scritto: Il quadro che mi sembra emergere dai due editoriali è quello di una intera scuola di canto (Bergonzi, Freni, Cossotto, ecc.) dipinta come una specie di prodotto tipicamente italiano, di cui all’estero se ne sbattevano sovranamente, malinconicamente rivolta al passato, trastullo di un gruppo di nostalgici babbioni che si riunivano a Martina Franca. Honestly: è un quadro in cui non mi ritrovo molto…
Come sai - l'ho detto sin dal primo editoriale - l'idea di questa revisione è nata dallo recensione dello spettacolo di "Adriana Lecouvreur" alla Scala. La data è il 1989, io l'avevo anche vista a Teatro, e sono rimasto stupito, ancora a distanza di anni, della pochezza di contenuti artistici. Nel canto, nella direzione e nell'allestimento dello spettacolo. E' stato così che ho provato a ragionare non solo sullo "Stile Scala" di quegli anni che, ai miei occhi, è apparso profondamente diverso da tutte le epoche che l'hanno preceduto, ma anche su un non meno ipotetico "Stile Anni Ottanta" che, invece, ha una pretesa di essere un po' più universale. E' vero che sino ad ora ho parlato di Scala, ma mi riservo di allargare il discorso nelle prossime puntate (se ce la farò col lavoro).
La mia opinione è che quei cantanti - che pure hanno avuto un grande successo all'estero, siano un prodotto tipicamente italiano di quel periodo che attualmente è oggetto dei rimpianti dei
duri e puri. Un successo che mi stupisce perché penso che sia frutto della bellezza del mezzo vocale (indiscutibile), piuttosto che delle intenzioni interpretative, spesso quanto meno dubbie. E da lì nasce la mia domanda: questa impostazione
è frutto dell'edonismo Anni Ottanta? C'è sicuramente un po' di tautologia in un quesito del genere, me ne rendo conto, ma non negherai che sia un bel sistema per smuovere una discussione, no?
Una frase (riferita alla Scala) come:
beckmesser ha scritto: Bergonzi non fu affatto un prodotto tipicamente scaligero o italiano. ... i suoi successi, in Italia, non erano così pacifici e da quel che si legge delle cronache di quegli anni e da quel che raccontano vecchi habitués, qui da noi il suo stile non era così facilmente accettato. Poi si sa, in Italia si è così: come negli anni ’50 tutti erano stati antifascisti, così dagli anni ’80 tutti erano diventati “bergonziani”, e come nessuno avrebbe mai confessato di aver mai messo piede a Piazza Venezia, così nessuno avrebbe mai ammesso di avergli gridato “Tajoli” dal loggione di Parma perché smorzava i si bemolli in Aida…
Affermazione interessante la tua, Beck. Del resto, io non ho negato il successo di Bergonzi, tant'è vero che citavo come esempio la Norma del Met 1970 con Sutherland e Bonynge, davvero ragguardevole anche e soprattutto sul versante tenore.
Che abbia avuto successo internazionale, non lo nego: sarei sciocco e antistorico.
Che sia un prodotto assolutamente italiano, lo affermo con forza. Era l'erede naturale di quella catena di cantanti tipicamente italiani che cantavano con bel lirismo ma anche abbondanti portamenti. Gigli non era stato molto diverso, no?...
beckmesser ha scritto: “il momento” di quei cantanti non era solo alla Scala, era ovunque, secondo perché anzi era altrove più che alla Scala. … Se proprio devo trovare un limite alla Scala di quegli anni (e ce ne sono un’enormità), è semmai quello di non aver utilizzato abbastanza la Freni, o di averla utilizzata male: onestamente, avrei preferito la sua Aida, all’ennesima Mimì…
Il sottotitolo dell'articolo è: "La parte per il tutto". Dovendo schematizzare - e in un articolo è inevitabile - ho scelto un esempio paradigmatico per l'
italianità. In questo tipo di operazioni è inevitabile un po' di tautologia, come ho già detto prima: ma sono contento di averlo fatto perché ho sollevato un piccolo dibattito...
beckmesser ha scritto: [Bergonzi] Quali sarebbero gli stilemi frusti che ripercorreva? Quale altro tenore, in altre parole, negli anni ’50, ’60, ’70 cantava con quello stile? ...non sono molto convinto che ciò debba necessariamente passare dal dare a Bergonzi del “cantante confidenziale”.
Be', alle mie orecchie è evidente: quelli di Gigli, già vecchi ai suoi tempi. Riproporre questo modo di cantare forbito e pulitino - mi verrebbe da dire "a culo di gallina", ma non vorrei passare per irrispettoso
- dopo che era passata gente come Del Monaco e Di Stefano mi sembra cosa quanto meno bizzarra.
Non a caso dopo arriva Domingo che, guarda caso, è un riassunto dell'eroismo delmonachiano filtrato attraverso la lente della seduzione di Di Stefano.
Questo, almeno, è il mio punto di vista!
Grazie degli ottimi spunti di riflessione!