Sono particolarmente lieto di pubblicare nuovamente in home un contributo di Francesco Zicari, che noi di Operadisc conosciamo come Triboulet.
Stimo infatti profondamente Francesco, ne apprezzo la serietà nell'approcciare la materia, l'approfondimento, il suo essere privo di malizia e la profondissima onestà intellettuale.
Ne pubblico volentieri il contenuto perché qui, su Operadisc - contrariamente a altri siti - pubblichiamo anche tutto ciò che non c'entra molto con quanto viene sostenuto da anni.
E tuttavia, il fatto di aver pubblicato questo contributo non mi impedisce di dissentire profondamente, completamente e radicalmente da quanto Francesco esprime in questa riflessione ironica (o dovrei dire semiseria?...).
In particolare (cito così, alla rinfusa):
nego decisamente che ci sia stata una "romanticizzazione" che ha rovinato la produzione, l'interpretazione e la fruizione della musica. Credo che sia inevitabile che ogni epoca influisca sulla produzione successiva, e questo in particolare vale per Wagner. Col che, ovviamente:
nego decisamente che Wagner (e Beethoven, a maggior ragione, prima di lui) possa aver avuto un'influenza negativa su ciò che è venuto dopo. O meglio: l'influenza, inevitabilmente, c'è stata; il modello era troppo ingombrante, e ha cambiato le regole del gioco
queste considerazioni valgono, in senso quasi inverso, anche per Bach, il cui ruolo non può essere tout court ricondotto a quello di un artigiano di bravura sopraffina che si cantava addosso. La sua musica non è fine a se stessa, a meno che non consideriamo tale tutta la musica composta nell'arco dei secoli; ma questo vuol dire aprire un enorme dibattito sul ruolo dell'Artista, sulla sua libertà d'espressione e sui vincoli del rispetto delle regole
In altre parole: i Grandi Artigiani (se proprio non li si vuole chiamare Artisti, ma non capisco perché) sono tali perché la loro influenza è stata talmente soggiogante da dettare le regole.
La nostra epoca, invece, se ho seguito bene il ragionamento di Francesco, caratterizzata da alcuni (non tutti, invero) interpreti hipsters, sarebbe votata al recupero di una tradizione scrostata da secoli di bitume depositato sugli spartiti.
Il che mi andrebbe anche bene, come idea.
Ora, però, si dà il caso che io - da sempre appassionato del percorso interpretativo dei Barocchisti (tanto per fare un esempio) - stia facendo proprio con Bach una sorta di palingenesi, un percorso inverso che mi porta ad accostare alle voci bianche di Harnoncourt/Leonhardt nella gloriosa integrale delle Cantate, o agli squittii di James Bowman, le architetture sonore di Richter o addirittura di Furtwaengler, ritrovandovi una sincerità e una verità drammatica che invece non trovo per esempio nell'ortodosso Koopman.
Quindi, Francesco, come la mettiamo?
Ancora una volta siamo qui a menarcela con questioni di ortodossia musicale, come se fosse l'unico dogma sacro e inviolabile?
Oppure siamo alla ricerca della Verità Drammatica che solo in un momento - in quel preciso e identificato momento - fotografa come un'istantanea il particolare periodo di cui è figlia?
In altre parole: conta più la solita quaestio perpetua sul rispetto pedissequo di quello che è scritto, che va eseguito solo in quel modo; oppure conta qualunque esecuzione perché ogni esecuzione è figlia del periodo e del luogo in cui è concepita?
Spero che si sviluppi un adeguato dibattito su questa questione, cui invito proprio - tanto per cominciare - chi ha lanciato il sasso, e cioè Francesco; ma vorrei che rispondessero anche gli altri.
L'argomento non è affatto banale, perché è il perno intorno a quale ruota il nostro sito che, una volta di più, si conferma un unicum nel panorama culturale italiano.
E non solo.
Comunque, un sentito ringraziamento a Francesco