Ho appena visto il video dell'allestimento londinese della Cendrillon del 2011, che riprendeva una produzione di Pelly del 2006 (Santa Fe).
Grande speranza per chi, come me, crede in una prossima rinascita del genio di Massenet.
Ancora più grande delusione: un fallimento completo è il meno che possa dire, almeno IMHO.
Partiamo dal primo "colpevole", ossia Pelly.
Sono anni che penso, purtroppo, che il regista francese sia sopravvalutato.
E' arrivato il momento di smettere di far finta che non sia così.
Io stesso, dopo aver visto i suoi Platée, Orphée, Belle Helène (in video) e la Grande-Duchesse de Gerolstein (dal vivo), ero arrivato a credere che Pelly potesse essere - dopo Ponnelle - la prima risposta vera alla specificità del comico in musica.
Ora però, passati i primi entusiasmi, si sono susseguite talmente tante produzioni modeste da non poter più negare l'evidenza.
Abbiamo dato a Pelly troppe responsabilità: mentre in lui non dovevamo cercare altro che un regista preparato, effervescente, talora efficace (se l'opera lo aiuta) ma da non paragonare assolutamente ai grandi registi del nostro tempo.
Con Offenbach (e con Minkowski) tirava fuori il meglio di sé, anche perchè le operette di Offenbach non nascondono i propri meriti: è già tutto lì.
Il turbine del ritmo, l'irruenza della narrazione, la gioia della quadratura del comico, dei suoi stilemi, dei suoi tempi, l'evidenza delle psicologie.
Aggiungiamo la presenza di Minkowski, che esplodeva dalla fossa veri fuochi d'artificio, e il carisma di una Dessay o di quella "Maggie Smith dell'opera" che è Felicity Lott , e il gioco era fatto.
Nel mondo si è presto diffusa la convinzione che Pelly avesse i numeri per raggiungere tutte le frontiere del comico operistico: e anche noi ci abbiamo creduto.
Da Chabrier (Le Roi malgré lui) a Weill e Brecht (l'opera da quattro soldi e Sette Peccati capitali); da Strauss (Ariadne) a Janacek (la Piccola volpe astuta); dal Ravel dell'Ora Spagnola al Prokof'ev delle Melarance; dal Donizetti di Elisir d'amore e soprattutto della Fille du Regiment al Puccini di Gianni Schicchi.
Senza contare il salto nel "comico" per eccellenza del teatro "classique": la Platée di Rameau, seguita dalle Boreades (testo su cui si confrontò direttamente al "rivale" Carsen).
Mancano solo Falstaff e Meistersinger e il cammino è completato.
Addirittura si è voluto spingere Pelly in un terreno Massenet (Manon, Don Quichotte, Cendrillon) nella convinzione che la sua "francesità" potesse aiutarci a svelare i misteri di una drammaturgia in via di ridefinizione (con approdi addirittura a "classici" come Pelleas e Voix Humaine, decisamente poco probanti; tremo a pensare al prossimo Robert le Diable).
Eppure, regia dopo regia, si è fatto vieppiù evidente che le sue capacità di scavo drammaturgico fanno acqua, che la definizione psicologica è di rado più che rudimentale, e che tecnicamente i suoi spettacoli, nella migliore delle ipotesi, sono accettabili e funzionali (come ai tempi di Pizzi) ma incapaci di aprire orizzonti vasti e risolutivi.
Le Melarance ad esempio sono state per me la prima grande delusione; anche peggio l'Ora spagnola.
Non parliamo della Piccola Volpe Astuta a Firenze (probabilmente la più povera, insignificante realizzazione di quest'opera fra quelle che ho visto).
E la pluridecorata Fille du Regiment? Non è che abbiamo un po' sopravvalutato anche quella, magari per paura di ammettere che il nostro Pelly non fosse tutto questo prodigio?
Siamo obbiettivi. Quanto di quello spettacolo sarebbe sopravvissuto senza il genio di Natalie Dessay?
Se escludiamo appunto l'immagine trionfale della protagonista "maschiaccia", incerta nella sua sessualità (aspetto che credo dipenda più dalla Dessay che da Pelly), cosa è rimasto di quello spettacolo?
Forse l'ambientazione "pizziana" e "tirata via"?
O quel carro armato-tira applausi alla fine, degno di un avanspettacolo del dopo guerra?
O la sempliciona raffigurazione degli altri personaggi dell'opera?
E dire che la Fille potrebbe evocare ben altre dimensioni sul piano delle psicologie, ove i personaggi non vengano ridotti alle solite macchiette da commedia (ad esempio la Berkenfield e Sulpice risultavano tanto più interessanti e complessi nel modesto allestimento genovese di Sagi).
Questa riduzione delle psicologie a mascherine da recite scolastiche è una costante di Pelly, vera per il Gianni Schicchi come per l'Elisir d'amore e, purtroppo, con esisti spesso spaventosi.
Personaggi struggenti come il Guardiacaccia e il Maestro di Scuola della Volpe Astuta (che con Jones e Nordey assumevano rilievo e commozione tali da farti stare male) con Pelly altro non erano che i soliti buffi da commedia. Per forza ci si annoiava...
Anche tecnicamente gli spettacoli di Pelly fanno troppo spesso acqua.
E' vero che un livello minimo di accettabilità lo garantiscono. Ed è vero che facilmente ci troverai la coreografia divertente e la gag "carina".
Ed è anche vero che quando l'indiavolato ritmo di un Offenbach trascina tutto, Pelly sa evitare di "frenare" e anzi si mantiene all'altezza.
Ma quando l'opera non può essere solo "messa in immagini" ma pretende un impegno drammaturgico, Pelly crolla.
La sua Ariadne (ammettiamolo una buona volta) è una roba dozzinale paragonata ai capolavori di un Guth o di un Carsen.
E temo che anche la sua Traviata (tra le righe... lo ha ammesso anche la Dessay) non avesse nulla di interessante.
Proprio la Traviata (e il simbolone becero, scemo direi, delle croci) ci permette di illustrare un altro limite tecnico di Pelly.
Ossia la tendenza a schiacciare i suoi spettacoli sotto il peso di simboloni facili e onnipresenti (proprio alla Pizzi per intenderci) intorno a cui far girare tutto il resto.
Nel caso del noioso Don Quichotte, come di questa brutta Cendrillon, il simbolo è un "librone" (udite, udite).
Sai l'originalità di "spiegarci" che dietro a Don Quichotte e alla Cenerentola vi sono monumenti letterari...
Il simbolo-librone poteva funzionare negli anni 80, come scappatoia per falsi registi, ma oggi, nell'era delle regie, esso si rivela subito per quello che è: un paravento che non porta alcun progresso anzi blocca lo sviluppo drammaturgico, narrativo e psicologico di un allestimento.
Oltre a non servire a niente (perché, ripeto, non c'è bisogno che Pelly ci ricordi che dietro a Cendrillon c'è il racconto di Perrault) imprigiona la vicenda, livella le situazioni e comprime i contrasti.
E soprattutto porta al naufragio i testi drammaturgicamente più complessi, come quelli di Massenet.
La drammaturgia di Massenett è tanto più difficile proprio perché la sua complessità è ben nascosta sotto una superficie di apparente banalità.
Il vero regista dovrebbe squarciare il velo "facile" della superficie e rivelare tutto quello che Massenet affidava al "non detto", alla paura del dire, ossia le angosce del tramonto di una civiltà, la lucidità con cui il nuovo è temuto, descritto, accarezzato, odiato. Se c'è un compositore che incarna gli aspetti più tremendi del naturalismo questo è proprio Massenet, perché - a differenza di Zola - egli non li esplicita, ma li nega, li contraddice. Quello di Massenet è il razionalismo che fugge la ragione, sogna l'altrove, che teme la vita.
Tutte le paure del '900 sono alluse nelle sue opere.
A fronte di ciò, le rassicuranti idiozie ammanite da Pelly per tutta l'opera, ben compresse dallo schiacciasassi del "simbolone" idiota, sono il peggior tradimento possibile a Massenet.
Poi che qualche gag funzioni (come il balletto sbilenco durante la festa a corte o la sfilata delle aspiranti principesse alla fine) e che alcuni effettini - le fate con l'abat-jour - siano graziosi... lo posso ammettere.
Ma questo non ci salva, ai miei occhi, da uno dei peggiori fallimenti registici che abbia visto negli ultimi tempi
Inutile dire che non c'è un personaggio che non sia risolto in stereotipi e macchiette.
Per tutto il tempo, fra uno sbadiglio e un altro, ci tocca sorbettarci coristi che ballonzolano in buffonate " a ritmo" che potrebbero ricordare quelle di un film di Stanlio e Olio, caricature per nonne come quella di Madame de la Haltière e rassicuranti banalizzazioni come il buon vecchio papà Pandolfe che pare direttamente uscito da un film di Shirley Temple.
Quando le sorellastre saltellano a tempo (si siede l'una, si alza l'altra, si fanno eco con le loro scemenze) io non pensavo tanto a un'imitazione di Ponnelle (che però applicava questi stilemi a Rossini e non a Massenet, e soprattutto lo faceva quarant'anni fa), quanto ai vecchi allestimenti di Turandot all'Arena di Verona, che trasformavano i tre ministri in Qui, Quo, Qua.
Trovo incredibile che qualcuno ancora pensi che ...tutto ciò sia divertente.
Ovvio che in un contesto simile nessun interprete riesca a lasciare una traccia di personaggio.
La Di Donato, anche se soffre un po' la tessitura per lei un po' troppo acuta, canta come un angelo; filati, liquidità di legato e incanto a ogni nota.
Questo non la salva dall'essere una Cendrillon insopportabile; è triste vedere quell'americanona franca e soddisfatta, dai fianchi opimi e dall'orrida frangetta da "il tempo delle mele", abbozzare musetti da brava bambina e a pose ingenuone che non avremmo tollerato - trent'anni fa - in una Freni.
La Coote è ammirevole, come ogni volta che canta ruoli en travesti, per l'efficacia con cui fa l'uomo.
E non solo è molto più uomo lei di cento tenori, ma riesce persino a rappresentare un uomo "sexy" (cosa difficilissima per una donna).
E non di meno cosa fa di diverso rispetto alle sue solite incarnazioni?
Neanche per un attimo abbiamo l'illusione di intuire le grandi responsabilità di questo Principe "charmant" (un tempo incarnato da gente come Mary Garden e che dovrebbe rappresentare il corrispettivo francese di Oktavian).
Anche Ewa Podles canta benissimo, ma bastano cinque minuti perché la sequela di smorfie, buffonate e idiozie a cui è costretta ci faccia passare la voglia di darle retta.
E dire che il suo personaggio, Madame de la Haltière, la matrigna cattiva, fu scritta per quella stessa Blanche Deschamps-Jéhin per cui erano stati inventati ruoli enormi (e tragicissimi) come Hérodiade dello stesso Massenet, la pazza Margared del Roi d'Ys o la Madre nella Louise di Charpentier (e che impersonò la prima Ortruda a Parigi).
Il suo personaggio dovrebbe atterirre, spaventare... evocare il male di una borghesia malsana, rantolante nell'invidia, soffocata nella paura del fallimento, ansiosa di umiliare e distruggere.
E invece abbiamo la solita simpatica vecchietta che fa tante facciotte divertenti e tanti bei numeri buffi...
Lafont, dal canto suo, ha sempre il solito carisma, ma oltre a essere troppo vecchio e scassato per la parte del padre, è a sua volta lasciato, scenicamente, alla più detestabile convenzionalità.
L'unica che scenicamente funziona (ed è vocalmente accettabile) è Eglise Gutierrez nella parte della fata; canta meglio che a Parigi nella Muta di Portici e conquista per quel suo atteggiarsi a Sharon Stone del melodramma (fra l'altro con generoso sfoggio dell'eroico davanzale). Ma la parte della fata sarebbe da destinarsi a una grande primadonna virtuosa, che lei non è ancora (e difficilmente sarà).
Quanto a Bertrand de Billy, è ammirevole l'eclettismo di cui dà prova e, tutto sommato, non dirige male.
Si resta col sospetto però che non abbia riflettuto troppo su ciò che distingue l'universo sonoro di Massenet da quello di altri compositori coevi.
E' brillante e cadenzato come se stesse dirigendo il Pipistrello e contribuisce (co fallimento della regia) ad annegare la produzione in una genericità inutile e irritante.
Personalmente sconsiglio a tutti l'acquisto del DVD, ma sarei curioso di conoscere altre impressioni.
Salutoni,
Mat