Rodrigo ha scritto: ritengo che i ruoli Duprez (e Arnoldo è in un certo senso una parte che rientra nella categoria) siano quanto di più vicino alle sue possibilità ed alla sua personalità..(ndr di Pavarotti)
Eppure, caro Rodrigo, Arnoldo non è un ruolo duprez.
Non lo è proprio come Norma non è un ruolo Burzio (anche se le Norme-Gioconda come lei hanno avuto una tradizione più lunga e fortunata - oltre un secolo e fino a oggi - di quella delle intepreti pastiane e belcantiste).
Quale che sia l'impatto sul pubblico delle coeve o future "varianti", un ruolo si porta comunque dietro il marchio non tanto di colui che l'ha creato, quanto - come in questo caso - di colui per le cui caratteristiche, per la cui personalità, per la cui voce, per la cui tecnica è stato scritto, voluto, pensato, elaborato parola dopo parola, nota dopo nota, da librettista e compositore.
Se anche non possedessimo la prova del disprezzo di rossini per la variante duprez in Arnould (prova che invece possediamo), la questione non cambierebbe.
Per quanto sia lecita ogni aberrazione rispetto alle note e al loro spirito (le leggi, si è detto tante volte, non appartengono all'arte e alla cultura), è pur sempre evidente che duprez e i suoi numerosissimi eredi non hanno
servito lo spartito e il testo dell'opera bensì
piegato alle loro caratteristiche, proprio come la Burzio, la Cigna e la dimitrova hanno fatto con Norma.
E non sto solo parlando della solita questione del falsetto (a cui d'altronde non ricorrevano nemmeno Gedda e Kunde): il vero problema è che i tenori alla duprez (con la forza delle loro maledizioni, delle loro invettive, del loro eroismo pret à porter) non potevano nemmeno sognarsi di ricreare quell'abisso di tormento byroniano, quella vertigine romantica, quel fremito di grandezza intellettuale e solitudine esistenziale che erano racchiusi nei suoni scuri, baritonali, morbidissimi, a volte aspri a volte disarmati di Nourrit... suoni che Rossini aveva ben impressi nella sua testa mentre scriveva ogni nota del personaggio.
Pavarotti è meglio di Filippeschi? Vero! E questo lo assolverebbe?
Assolve la Cigna il fatto che la Souliotis fosse una Norma peggiore?
Il problema sta nel fatto che il personaggio di Arnould è stato per un lunghissimo periodo tradito nella sua vera dimensione vocale e drammatica, ricondotto a un figurino borghese di eroismo e patriottismo da feuilletton... che non gli appartiene.
Pavarotti per altro non riscatta il "tradimento" con una qualche geniale rilettura (come i vari Vinay, del monaco e Vickers fecero col "tradimento" di Otello, quello sì un ruolo alla duprez). Anche in questo Tell resta il solito Pavarotti, incerto ritmicamente, scarsamente consapevole di quel che dice (nonostante l'orrida traduzione in italiano che avrebbe dovuto favorirlo), povero nella dinamico e spaventosamente prosaico...
Se ottica "duprez" deve essere (e per me semplicemente "non deve") allora teniamoci i frammenti di Slezak e di Lauri Volpi, molto più interessanti...
Quanto alla questione della traduzione, veniamo a Teo.emme.
Ma perché mai sarebbe operazione di retrovia? Retrovia rispetto a che? Cosa si faceva "altrove" con quest'opera, per dire che Chailly opta per scelte da "retrovia" culturale (odio quest'espressione in stile "Elvio Giudici")? Mi sembra un pregiudizio...ecco.
Il fatto che Giudici abbia un italiano particolarmente ricco e colorato (anche troppo alle volte) è vero!
Che abbia introdotto espressioni nuove e particolarmente "icastiche" (molte delle quali, per altro, hanno fatto scuola) è pure vero.
Ma da questo a attribuirgli la paternità di un'espressione diffusissima e di uso comune come "retrovia culturale"... e per questo arrivare a odiare tale espressione (e perché poi?
) mi pare esagerato!
A proposito del concetto di "retrovia", proprio tu - parlando in altro thread dei compositori "artigiani" del medio e secondo 800 italiano - ne hai offerto una più che corretta definizione.
Il teatro musicale era fatto di convenzioni che si ripetevano uguali da decenni, tanto che nel 1850 si potevano ancora sentire opere di matrice rossiniana con recitativi al cembalo. Tali convenzioni hanno di fatto impedito uno sviluppo più rapido (i più grandi andavano in Francia, per liberarsi dai lacci e lacciuoli imposti dalla tradizione e necessari affinché il pubblico gradisse...), e hanno creato uno stuolo infinito di artigiani delle 7 note, di cui solo una minima parte ambiva a velleità artistiche. Le convenzioni hanno certamente garantito una generale piacevolezza di genere, ma hanno sclerotizzato quel mondo. La maggior parte di quei lavori era finalizzato ad esporre le virtù dei divi, e funzionano (o meglio "meravigliano") solo laddove l'interprete sia all'altezza di superare le enormi difficoltà di quelle parti (scritte per i più grandi cantanti dell'epoca).
Ecco, trasportiamo le tue osservazioni e le tue critiche dai palcoscenici italiani ottocenteschi agli studi della decca nel 1979 e le possiamo riproporre di sana pianta per il Guillaume Tell (scusa se lo chiamo come lo ha chiamato Rossini, in francese...).
Tu ti chiedi quanti Tell circolassero all'epoca in lingua originale.
Certo non molti. Le tradizioni infatti (proprio come tu hai scritto nel passaggio testé citato) sono dure a morire anche quando ...sono moribonde.
Spesso si faceva il Tell in italiano anche negli anni 70 e addirittura 80, proprio come nel 1850 sopravvivevano in certe opere italiane i recitativi secchi.
Ma questo non toglie che nel 1850 (in tutto il mondo e persino in Italia) la tendenza non era più quella dei recitativi secchi.
Chi li praticava era
retrovia .
Allo stesso modo, nel 1979 la tendenza in atto - da almeno un trentennio - era quella di recuperare la lingua originale per ogni opera: non si eseguivano più le opere tedesche in italiano o quelle italiane in tedesco...
e questo specialmente nel caso del prodotto discografico, che aveva ambizioni più universali che non il singolo teatro.
Lo dimostra il fatto che... proprio la precedente edizione del Guillaume Tell (quella di Gardelli appunto) era in francese.
Ora, logica vorrebbe che la parola "retrovia" indicasse una scelta retrograda rispetto ad un'evoluzione costante in altro senso
ehehehe... Ottimo questo tuo richiamo alla logica!
Per la stessa ragione ti invito a osservare che incidere un'opera nel 1979 per una grande multinazionale del disco non nella lingua in cui fu composta, ma nella traduzione delle più assurde consuetudini teatrali (ed evidentemente con nessun altro scopo se non quello di favorire "un divo" che - oltre a non conoscere il solfeggio - non conosceva nemmeno il francese) era proprio una scelta "retrograda rispetto a un'evoluzione costante in altro senso": l'evoluzione in atto era infatti indiscutibilmente quella di recuperare la lingua originale per ogni repertorio; o meglio di riconnettere i suoni di una partitura alle parole esatte per cui quei suoni erano stati pensati e scritti.
Che quella fosse la tendenza in atto - se ce ne fosse ancora bisogno - lo dimostra anche il fatto che pochi anni dopo (ossia oggi) il Tell in italiano non lo fa quasi più nessuno.
pure il più "chic" Riccardo Muti opta per l'italiano - con la foglia di fico di una risistemata al testo - tutti quelli che hanno affrontato il Tell l'hanno fatto in italiano.
Personalmente non ho mai affermato che Muti fosse più "chic" di Chailly...
E nemmeno che fosse più "avanzato" filologicamente..
sai, io purtroppo sono abbastanza vecchio... abbastanza da essere potuto andare alla Scala per sentire il Tell di Muti; in quella occasione già ero fra i tanti che si scandalizzarono per la scelta della lingua italiana. Anzi le polemiche furono tali in quell'occasione che Muti dovette persino giustificarsi sulla stampa prima della recita: ebbe a dire che non si poteva imporre ai professori del coro l'imponente e massacrante studio di quest'opera in lingua francese!
Per fortuna lo stesso Muti si arrese, qualche anno dopo, all'avanzare dei tempi, in occasione del Moise (anche se trovò il modo di compiere scelleratezze filologiche pure in quell'occasione).
Il fatto che Muti portasse avanti a sua volta (come ha sempre fatto) scelte di retrovia, non assolve però Chailly dalla stessa accusa!
Semmai l'unica differenza - questo lo dico a titolo personale - è che Muti... era assai più bravo di Chailly... e il suo Tell (benché in Italiano) assai più bello.
2) Indirizzo della bacchetta: Chailly toglie alla partitura l'impeto risorgimental-verdiano con cui veniva eseguita solitamente, optando per una lettura "classica" senza indulgere in facili e scorrette suggestioni romantiche.
A te pare così?
A me no.
A me pare che le suggestioni romantiche (per nulla facili e per nulla scorrette) nella partitura ci siano eccome.
Solo che Chailly, come al suo solito, non sa renderle. Sa unicamente gonfiare l'effettismo, pompare il dettaglio perdendo di vista la prospettiva drammaturgica e culturale dell'opera. Nonostante la brillantezza da vetrina "operistica" con cui Chailly tradisce la dimensione notturna e il vasto respiro tipicamente francese che Rossini ha impresso alla sua musica, l'effetto che si prova è quello di un impianto sconnesso e facilmente noioso, proprio per la sua deprimente superficialità.
Il "corretto" Gardelli - che in quest'opera non tocca certo il vertice della sua carriera discografica - sa comunque innervare molte pagine, specie al secondo atto, di una consapevolezza poetica che al povero Chailly (e non solo in Rossini) è spesso mancata.
Salutoni,
Mat