Affatto, Riccardo, affatto...
Innanzitutto non è mia intenzione fare una "classifica" o un elenco di buoni e cattivi musicisti. Sarebbe operazione inutile, sterile e antistorica.
Semplicemente riflettere su certe peculiari differenze tra il melodramma italico e la realtà europea coeva. Differenze che derivano - non mi sembra uno scandalo - anche da arretratezza culturale. Non vuole, naturalmente, essere un giudizio di merito, né dire che l'incapacità di Bellini di utilizzare la "forma sonata", pregiudica il gradimento o la grandezza delle sue creazioni. Assolutamente no: si tratta solo di constatare alcuni fatti e metterli tra loro in correlazione. Del resto non sono certo l'unico a sostenere queste tesi, né dipende da inesistenti (nel mio caso) suggestioni romantiche (che, anzi, paiono la solita accusa, buona per tutte le stagioni e le occasioni, per criticare senza approfondire): anche studiosi rinomati - sostenitori e amanti del melodramma italiano - la cui autorevolezza non può essere certo liquidata come mitizzazione, affermano i medesimi concetti (Budden, Ashbrook e Gossett). Credimi, poi, dell'arte - in genere - non ho alcuna visione "metafisica", né amo "cincischiarmi" tra idee di purezza e sublimazioni creative. L'arte è un prodotto di una determinata cultura e società (e risente, nel suo sviluppo, di influenze eterogenee o, per dirla marxianamente, di condizionamenti sovrastrutturali), e come tale è valutabile anche in relazione ad altre esperienze storiche e culturali.
Al contrario penso proprio sia una semplificazione l'affermare che l'arte è comunque "bella": questa sì è una suggestione romantica e antistorica. E infine ideologica poiché tende a non indagare le ragioni, quanto accontentarsi nei meri effetti "sentimentali" ed estetici.
Ma veniamo al merito.
1) l'artigianato musicale del melodramma è un dato di fatto difficilmente contestabile: l'opera italiana viveva - nella prima metà dell'800 - di convenzioni, codificate anni prima e ripetute identiche per decenni. Questo permetteva ai compositori di "produrre" velocemente una mole smisurata di titoli: e questo significava commercio. Permetteva anche un linguaggio omogeneo, privo della necessità di prove approfondite o preparazione impegnativa: i cantanti di grido imparavano le parti in poco tempo, facilitati dall'uso di queste convenzioni. Ciò dipendeva dalla dimensione cantante-centrica del melodramma. I divi erano il fulcro attorno a cui girava tutto il resto. L'orchestra e il trattamento orchestrale era l'ultimo dei problemi: si pensi al fatto che l'Italia fu l'ultimo paese in cui si diffuse la figura del direttore d'orchestra! Il compositore/artigiano, dunque limitava la sua creatività a produrre pezzi di bravura per i divi di cui disponeva ed effetti di raccordo: l'orchestrazione era poco curata per esigenze pratiche...le prove iniziavano sullo spartito, quando l'autore ancora non aveva iniziato la strumentazione (succede pure con Verdi: Rigoletto e Traviata vengono provate mentre l'orchestrazione non era stata stesa). L'orchestra, dunque, imparava le parti in una manciata di giorni o di ore. E del resto producendo 5 o 6 titoli all'anno, l'autore non poteva agire diversamente: era un industria, anche redditizia. Ovvio che il genio, talvolta, emerge...ma è un numero infinitamente più basso rispetto alla mole di chi praticava la professione.
2) tali convenzioni - dovute anche alle esigenze profondamente conservatrici di un pubblico che storceva il naso di fronte alla novità (che poteva essere, magari, l'assenza di una cabaletta o la strutturazione anomala di un mero concertato) - hanno permesso, oltre ad una rapida produzione di titoli, anche - bisogna ammetterlo - un livello medio discreto: le forme codificate garantivano una innegabile tenuta all'insieme, tant'è che anche oggi si può fruire piacevolmente di composizioni di Pacini o Mercadante, pure considerandone la scarsa fantasia, ma ammettendone la tenuta; al contrario non sono molti i casi in cui ci si soffermi sui contemporanei minori di Mendelssohn o Schumann (case discografiche importanti, con divi "moderni" incidono Pacini o il Meyerbeer italiano - musica non certo indimenticabile - non mi risulta che i Berliner abbiano mai inciso le sinfonie di Czerny o di Raff). Tali convenzioni, però, rimaste sclerotizzate sino al 1860, hanno impedito uno sviluppo analogo a quello europeo della musica italiana: si dice, giustamente, che l'Italia dell'epoca avesse ancora entrambi i piedi nella tradizione musicale precedente. Verissimo: il romanticismo in Italia penetra tardi e a fatica, la musica strumentale e sinfonica non è praticata affatto, le orchestre sono semidilettantesche e il direttore d'orchestra inizia a comparire stabilmente solo negli anni '70 del secolo. Si pensi che solo intorno a quegli anni si inizia a conoscere Wagner (e il Wagner di Lohengrin...di molto precedente, quindi). Le sinfonie di Beethoven poi, ci mettono 30 anni ad attraversare le Alpi!
3) proprio i grandi compositori che, tutto sommato, emergono dall'artigianato locale, testimoniano il disagio: emigrano in Francia o in Austria per affrancarsi dalla morsa di una tradizione che ancora nel 1850 imponeva i ruoli en travesti dell'amoroso e i recitativi al cembalo! Rossini va in Francia, Donizetti pure (andrà anche a Vienna), Bellini realizza la sua opera più avanzata a Parigi, Verdi raggiunge lo stile maturo in suolo francese (e, in precedenza, scelsero la stessa strada Spontini e Cherubini: si osservi la differenza tra le rispettive produzioni italiane - dimenticabilissime - e i capolavori francesi e tedeschi). Ma anche gli stessi autori stranieri che, per lavorare in Italia, devono seguire regole e codici assolutamente superati (Mayr, Meyerbeer, NIcolai).
4) ciò che balza all'occhio - e all'orecchio - nel confronto tra realtà italiana e civiltà europea, è la sostanziale autonomia del compositore in Francia, Germania e Austria: autonomia rispetto all'impresario e all'interprete. Il musicista non è semplicemente lo strumento che prepara il veicolo affinché i divi ottengano il successo che il pubblico e la sua proverbiale pigrizia non si stancava di tributare (non volendo arrischiarsi mai nell'esplorazione di linguaggi che uscissero - anche solo in parte - dai ristretti confini delle convezioni ccon cui erano cresciuti). Neppure è un artigiano (più o meno talentuoso) al servizio dell'esibizione dell'interprete: pronto, cioè a soddisfare capricci e voglie. Nel resto d'Europa l'oggetto principale della composizione musicale era la composizione stessa - ovviamente commissionata e pagata e rivolta ad un pubblico che doveva gradirla per garantire gli utili necessari alla sopravvivenza dell'artista e alla convenienza del committente . In ciò risiede la differenza - anche nell'ambito della formazione tecnica (conservatori e accademie) - rispetto alla realtà italica, dove si insegnava più che altro a gestire il linguaggio delle convenzioni, piuttosto che un bagaglio completo di insegnamenti: anche per il fatto che, se pure si fosse approfondito l'aspetto orchestrale, o l'arte del contrappunto, o la forma sonata del sinfonismo classico, a nulla sarebbero serviti nell'ambito ristretto dell'estetica italiana dell'epoca (a che serve scrivere una sinfonia con fugati e elaborazioni classiche, se l'orchestra che la dovrà suonare è raccogliticcia e dovrà apprendere le parti in tre o quattro giorni, magari con il tempo tenuto dall'archetto del primo violino e il compositore seduto al cembalo senza suonare).
5) questo significa che l'opera italiana è musica di serie B? Assolutamente no, è cosa diversa. E' espressione artistica legata ad un mondo altrove già superato. Fatta di esigenze diverse in cui la coerenza musicale era valutata meno del capriccio del divo.
6) Bellini resta orchestratore inferiore a Mozart o a Haydn, anche per il fatto che a Bellini non interessava l'orchestra. Non era nelle convenzioni d'epoca. Non è suggestione romantica: è lettura di una partitura. Non è una colpa o un merito, intendiamoci, ma non è scandaloso ammetterlo.
7) il caso di Rossini è curioso: passato per "tedeschino" (in virtù di una maggiore dimestichezza con l'orchestra e una migliore fantasia strumentale) in realtà non ha nulla che possa richiamare lo stile sinfonico praticato - in quei tempi - nell'Europa musicale. In Italia, l'ignoranza in materia, faceva sì che tutto ciò che esulasse dal mero accompagnamento a "quartetto d'archi" e basso continuo, venisse bollato come "sinfonico" o "alla tedesca"; bastava un andamento a canone (anche elementare, stile "fra Martino campanaro") per titolare il compositore di "maestro del contrappunto" (così passava il buon Mercadante....ad esempio, pur non avendo, di esso, concetto alcuno). Rossini, in realtà, non si distacca mai dal trattamento orchestrale locale, certo lo raffina, lo rinnova, lo tratta con maestria...ma non compie grandi innovazioni: archi d'accompagnamento con ottoni in chiave ritmica, legni in funzione solistica. Punto. Certo Rossini era un genio musicale e da questi elementi ha saputo trarre capolavori assoluti. Ma non c'è nulla che richiami la forma sonata (ABC del sinfonismo tedesco), né la costruzione armonica delle composizioni, o la cura della struttura tonale attraverso passaggi a tonalità vicine e coerenti ad un disegno espressivo. Gli strumenti seguono ancora una logica di addizione, non di amalgama. L'arretratezza, però, la si misura nei tanti epigoni...e così, mentre in Europa operano Mendelssohn o Berlioz, in Italia Pacini scrive 70 opere una uguale all'altra, in stile rossiniano, con largo uso della banda interna, e i recitativi al cembalo! Da una parte Wagner, dall'altra Mercadante o Cagnoni o Faccio che, per apparir moderni, riempiono le partiture di strumenti, peggiorando se possibile la situazione: appesantendo le linee musicali di effetti rozzi (orrendo ad esempio, il vezzo di doppiare le voci con le trombe).
8 ) in tutto ciò, certamente, emergono figure che cercano di guardare altrove...ma ci si renda conto che erano eccezioni: si prenda a riprova quel documento interessantissimo che è la Messa per Rossini, che idealmente doveva racchiudere il "meglio" della musica italiana dell'epoca. Anno Domini 1869!!!! Verdi a parte (di cui si comprende ancor meglio la grandezza) si avrà idea di come ancora la musica italiana fosse impelagata in convenzioni e in goffaggini: tra Buzzolla, Bazzini, Coccia, Cagnoni, Mabellini etc... e i contemporanei europei (Austria, Germania, Francia e Russia persino), non ci sono solo distanze esprimibili in chilometri e in spazio, ma in anni! L'Italia ancora nel 1870 si dibatteva nelle convenzioni rossiniane, non comprendeva Wagner e viveva l'opera come all'epoca di Barbaja. In Europa Wagner ultimava Siegfried e Meistersinger; Mussorgsky preaparava la revisione del Boris, Saint-Saens si accingeva a comporre il Samson et Dalila, e Bizet la Carmen...in Italia si cominciava, invece, a eliminare la cabaletta!
Ma qui mi fermo per non allargare troppo il discorso...
Ripeto, però: ciò non toglie nulla al valore storico e musicale del melodramma. E' necessario, però, capirne il profilo...