da teo.emme » lun 10 mar 2014, 15:43
Prendendo spunto proprio dalla versione di Henze del Ritorno di Ulisse in patria, mi sono più volte posto un problema con la musica di quel periodo (quello di Monteverdi intendo). In questi ultimi anni la diffusione di quel genere così lontano dalle forme consuete dell'opera classica a cui - piaccia o meno - siamo abituati, ha portato ad una paradossale eliminazione di un problema: da una parte, infatti, percepiamo un vivo interesse per Monteverdi e l'epoca prebarocca, ne cogliamo certa modernità di linguaggio, addirittura rileviamo i tanti punti di collegamento con la nostra modernità, ma dall'altra fingiamo di ignorare (o spesso liquidiamo con accuse di volgare reazionariato) il problema esecutivo. Oggi è "obbligatorio" adottare modalità cosiddette "storicamente informate" e che ripropongono la "prassi autentica" (anche se si tratta di ricostruzioni convenzionali di quello che noi - uomini del XXI secolo - abbiamo deciso cosa essere autentico o meno: l'esempio del diapason che propone Sardelli in un'altra bella intervista è emblematico, ossia il "fasullo" 415 Hz e le ragioni della sua adozione). eppure - contestualmente - si dà massima libertà di stravolgere la drammaturgia originale, senza contare quello di cui parlavo in altra discussione, ossia l'aleatorietà di recuperare una prassi che si presenta come "vera", "corretta" e "autentica" quando si è persa quella verginità d'ascolto che rende impossibile eseguire Monteverdi senza pensare a quel che è successo dopo (oggi abbiamo nel nostro DNA musicale Beethoven, Bruckner, Mahler, Shostakovich etc...per cui appare impossibile riprodurre l'animus di chi eseguiva Monteverdi nel 1610!). Oggi si eseguono opere come l'Incoronazione di Poppea o La Calisto in teatri ottocenteschi, magari sfruttando la buca sotto il palco, con prosceni enormi, torri sceniche gigantesche e 2.000 posti davanti...eppure si pretende di utilizzare l'orchestra dei teatri veneziani dell'epoca di composizione (che contavano una dozzina di strumentisti e spazi ridotti). Questo, piaccia o meno, crea una distorsione fruitiva dell'opera. Così da far ritenere l'operazione, non la riproposizione di una prassi creduta autentica e di condizioni che riprodurrebbero esattamente l'epoca perduta, ma un'idea della stessa che è il risultato di convenzioni accettate. In questo senso credo che riprendere il discorso di operazioni simili a quella compiuta da Henze con l'Ulisse sia non solo lecito e legittimo, ma anche auspicabile. Questo non in chiave esclusiva - per sostituire una convenzione con un'altra - ma in funzione unicamente artistica. Ovviamente bisogna intendersi prima sull'individuazione di quella che è la funzione esecutiva: riproposizione scientifica di un mondo perduto oppure rivivicazione attraverso lo sguardo della modernità su un antico che ha ancora da comunicarci molto? Archeologia o vitalità creativa? I due aspetti possono coesistere, ma si dovrebbe abbandonare quell'atteggiamento snobistico - largamente diffuso - per cui coloro che mettono in dubbio non la liceità del modo antiquo inteso come utilizzo di una prassi ricostruita, ma la sua presunta "correttezza" rispetto ad altre modalità ritenute, conseguentemente, "scorrette", vengono rappresentati come ottusi reazionari, provinciali cultori di una tradizione sorpassata e altre amenità. Dicevo, dunque, che sarebbe interessante che musicisti dell'oggi si confrontassero con l'antico, cercando di colmare quell'innegabile divario - che rimuoviamo - tra la prassi di allora e il moderno teatro d'opera. Per uscire, insomma, da quegli assolutismi che caratterizzano gli ultimi tempi di passioni musicali: in un senso o nell'altro. Henze quindi non fa un'operazione da retroguardia culturale (come mi pare scriva Giudici a proposito di quell'Ulisse), ma fa rivivere Monteverdi superando i vincoli dell'adesione ad una certa prassi ricostruita. Porta Monteverdi al di fuori dagli ambiti ristretti di una specializzazione che troppo spesso è autoreferenziale e cerca di coglierne i rapporti con la modernità attraverso un linguaggio più comprensibile (ma non per questo più facile). Nell'intervista che ho allegato, parla espressamente del problema delle scelte timbriche in funzione degli spazi. Spazi diversi, quelli di oggi. Spazi da reinventare, dunque, per sonorità che non possono semplicemente apparire l'eco di un passato da museo, ma che devono portare in primo piano la musica che in Monteverdi è suggestiva di colori e di ambientazioni. Nello Sdegno del mare il processo di associazione tra sonorità, strumenti, personaggi e funzione degli stessi è monteverdiana nei contenuti (non nella forma certamente), e l'Henze revisore di Monteverdi applica il medesimo processo creativo all'opera da interpretare, perché, come scrive, l'opera è comunicazione e per comunicare deve parlare un linguaggio noto. Henze scrive che "il mondo non si può lasciare fuori, esso penetra nella stanza di lavoro", e così la modernità non si può sospendere per riprodurre qualcosa di irriproducibile. Henze non fa che declinare il concetto. Rivivere la partitura, finalizzata a comunicare sul palco ad un pubblico più vasto, all'epoca di composizione inimmaginabile. In un certo senso per il compositore il momento dell'esecuzione sul palco è più importante del testo: "il palcoscenico è l'occhio della partitura", così scrive Henze. E' triste veder liquidare un'operazione di tale profondità con accuse di conservatorismo o ignoranza. A me piacerebbe, accanto ad esecuzioni che mirano a documentare una ricerca musicologica, ascoltare i musicisti di oggi alle prese con testi così impegnativi. Desacralizzare l'approccio museale e consentire alla musica viva di appropriarsi di un passato lontano e di difficile comprensione. Perché considerarlo "scorretto" o peggio "stupido"? Era scorretto Shostakovich quando rielaborò le opere di Musorgskij? Era scorretto Rimskij-Korsakov? Purtroppo oggi si tende a considerare tali operazioni come "falsificazioni" come se non si riuscisse a prescindere dalle categorie morali applicate all'arte (giusto/sbagliato o buono/cattivo). Io rivendico, invece, l'autonomia artistica di questi interventi così che il Boris di Shostakovich è cosa diversa dall'originale, ma non scorretta o sbagliata. Così vale per l'Ulisse. Ma così vale anche per i Wesendonck-lieder che nella versione di Henze per contralto e orchestra da camera acquistano un erotismo più carnale della classica versione Mottl che cerca di farne una prova generale per il Tristan. Eppure c'è ancora diffidenza. Quasi si stesse deturpando un'opera d'arte compiuta. Ma chi dice che quell'opera è compiuta? Se proprio solo con l'esecuzione quell'opera diviene fruibile, allora non si può ancorarsi ad una autenticità convenzionale. Autenticità spesso affidata a specialisti che rispondono a mere velleità (quanti complessi cosiddetti "autentici" stanno sorgendo come funghi dopo la pioggia? E per quanti di loro si può giustificare la presenza in base ad un'effettiva qualità o interesse?). E non è solo la prassi esecutiva che risponde a dogmi che hanno scardinato il rapporto tra composizione ed esecuzione: si pensi ad un altro tabù ancor più duro da scardinare, ossia la lingua originale. Oggi solo porre dubbi in merito equivale ad essere fulminati da accuse d'ogni sorta (devo a Mascherpa la più esatta descrizione del fenomeno, quando altrove ha paragonato tale atteggiamento integralista a quello delle vecchine devote che se la presero con Paolo VI quando tolse loro la messa in latino), eppure il problema della comunicazione nell'opera è fondamentale! Certo da risolvere non con la proposizione delle vecchie traduzioni ritmiche (che spesso forzavano il testo musicale), ma magari predisponendone di nuove. E non si dica che bastano i sovratitoli o i display che distraggono dall'immediata comprensione. Anche qui è sempre l'ottica museale a prevalere. Eppure l'opera è teatro in musica. E il teatro è parola e spesso la musica traduce in forma sonora la parola e il suo significato. Non comprenderlo significa non capire del tutto quel che si ascolta, così come le vecchine che ripetevano i loro "santificetur" senza capire che volesse dire (atteggiamento talvolta così assurdo da produrre follie, come l'adozione del testo "originale" pure nell'operetta - accadde alla Scala proprio con La Vedova Allegra, rectius Die Lustige Witwe del 2008...). Infine alla probabile obiezione che sarebbe il mercato ad imporre certe modalità esecutive perché oggi quelle piacciono al pubblico, replico che non credo affatto all'idea trascendente del mercato...quasi che il Mercato fosse un'entità ultraterrena a cui ci si dovrebbe adeguare e che operasse in totale autonomia. Pensava così Adam Smith, ma oggi la visione è meno mitizzata...io credo che il mercato, così come tutte le vicende umane, sia un dato modificabile come e quando si vuole, poiché le sue cosiddette leggi altro non sono che scelte consapevoli ed ideologicamente orientate di chi vi opera. Quindi non credo che certe modalità esecutive siano imposte dal mercato, quanto invece il contrario: sono imposte da da chi le impone secondo proprie strategie operative e ideologiche che, di conseguenza, si presentano come l'unico mercato possibile (così come quella degli specialisti del barocco sarebbe l'unica modalità esecutiva possibile).
Ps: aggiungo un pensiero che ho sempre avuto in merito alla Petite Messe Solennelle - a proposito di orchestrazioni postumi - sarebbe stato splendido che il capolavoro rossiniano fosse stato ripreso e riorchestrato da altri compositori (così da avere alternative più interessanti della brutta orchestrazione di Rossini). Nei miei sogni c'è un'immaginaria versione di Stravinskij (sullo stile delle rielaborazioni pseudopergolesiane di Pulcinella).
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Matteo Mantica
"Fuor del mar ho un mare in seno"