Il gallo d'oro
Inviato: sab 17 set 2011, 12:02
Il Gallo d'oro è tante cose assieme.
E' l'ultima opera di Rimsky e senza dubbio quella più popolare in Occidente. A partire dalla prima del Solodovnikov del 1909 il titolo non è praticamente mai uscito di repertorio e viene allestito se non con frequenza, almeno con costanza.
E' un capolavoro di ingegneria orchestrale, tecnica teatrale e sintesi drammaturgica.
Nessun'altro titolo di Rimsky può vantare questa asciuttezza narrativa unita a una fluidità affabulatoria così priva di retorica.
Inoltre è un capolavoro "spartiacque"; di quelli che segnano la fine di un'epoca per aprirne una nuova. Mi stupisco che molti appassionati e critici non ne abbiano sottolineato a dovere l'importanza. Il Gallo d'oro è il classico "collo di bottiglia" attraverso cui gli spettatori e i compositori devono necessariamente "passare" per capire l'evoluzione di un genere. Il Gallo d'oro sta all'opera russa come il Falstaff sta a quella italiana o il Tristano a quella tedesca. A pieno diritto rientra tra quei che titoli hanno cambiato il mondo dell'Opera, di quelli che hanno girato pagina e da cui nessuno può prescindere.
Basta ascoltare le primissime note dell'opera - il chicchiricchì del gallo costruito sulla scomposizione dell'accordo di Re bemolle strillato dalle trombe con sordina- per rendersi conto di assistere a un cambiamento epocale. Il mondo delle Tatiane e degli Igor, ma anche dei Boris e dei Dosifej, delle bilyne e dei canti epici è definitivamente tramontato. Il Gallo d'oro anticipa la Katerine Ismajlove, le Renate, gli Edipi, le Suite Scite e le Sagre della primavera.
Il morbido e vellutato colore orchestrale di Rimsky è in quest'opera inasprito di sonorità taglienti, spigolose; è come se sopra un quadro di Repin fosse passato Kandinsky. La fiaba c'è sempre, ovviamente, ma in questo caso diventa dolceamara, per nulla consolatoria. Il fasto delle scene d'insieme non ha nulla a che invidiare con i titoli precedenti in quanto a magia sonora e spettacolarità teatrale; ma è un fasto dal sapore grottesco, quasi felliniano, disturbante.
Il Gallo d'oro è stata inoltre un'opera sovversiva.
Pensare a Rimsky-Korsakoff come un sovversivo fa sorridere. Nei dipinti d'epoca troviamo un maturo signore occhialuto, serio e grave.
Tra l'altro una distorta visione sia critica che musicologica ce l'ha sempre ritratto come un burocrate della musica, un professore di conservatorio formidabile sotto il profilo tecnico ma privo di autentico genio. Molti sono ancora convinti che Rimsky sia soltanto quello che ha scritto la Sheherazade e "rovinato" il Boris. Un Beckmesser tutta tecnica e niente poesia.
Invece, a fine corsa, quando ormai poteva tranquillamente godersi gli ori e gli onori di una formidabile carriera accademica fece una scelta del tutto impopolare.
All'epoca di Rimsky la Russia non era un paese molto diverso da quello raccontato nella Kovanchina. Retto in maniera feudale, sordo ad ogni innovazione, culturalmente colonizzato dalla Francia e dall'Italia, privo di un esercito in grado di difendere un territorio di quelle proporzioni, con la flotta decimata dalla guerra contro il Giappone, corrotto in ogni settore, schiacciato da un immane e costoso apparato burocratico, l'impero di Nicola II comincia a scricchiolare sotto i colpi dei fucilieri che, il 9 gennaio del 1905, fanno fuoco su una pacifica dimostrazione di 120.000 cittadini; ne uccidono duecento e ne feriscono più di un migliaio. La famosa "domenica di sangue" ha ripercussioni enormi anche in ambito culturale. Nel conservatorio in cui Rimsky è insegnante autorevole e venerato, molti studenti, diremmo oggi, occupano la struttura e ne decretano la chiusura fino all'anno successivo. Il collegio dei docenti si riunisce e chiama la polizia dopo averle consegnato i più facinorosi. Attorno all'edificio si forma un cordone di manifestanti che affronta le bastonate dei militari. E' inutile; la polizia ha la meglio, porta in carcere alcuni studenti dove alcuni subiscono dure sevizie. Rimsky-Korsakoff (chi mai se lo sarebbe aspettato?) si schiera dalla parte dei ragazzi e scrive un feroce articolo che passa i confini del paese. Rimsky accusa apertamente i colleghi e la Società Musicale Russa di aver consegnato senza ragione alcuni studenti alla sevizie della polizia. Questo pezzo porta alle dimissioni l'allora direttore del Conservatorio; ma il contraccolpo non tarda ad arrivare. All'indomani dell'articolo Rimsky viene espulso dalla Società Musicale Russa ed i rapporti con la corte e con l'aristocrazia (praticamente i teatri e la vita musicale sono in mano loro) sono chiusi in maniera definitiva. La polizia zarista comincia a tenerlo d'occhio in quanto pericoloso sobillatore di idee rivoluzionarie.
Questo lungo preambolo serve a capire perchè Rimsky cominciò a pensare al Gallo d'oro.
Il racconto di Pushkin da cui è tratto il libretto era già stato aoggetto di aspre polemiche al suo apparire.
La storia dello zar Dodon, vecchio e stanco, che non vuole più regnare ma solo dormire e che affida le sorti del regno ad un gallo-sentinella meccanico e capitola di fronte alle seduzioni di una giovane ninfetta portando il paese allo sfascio non poteva lasciare tranquilla la censura. Censura che chiede a Rimsky radicali modifiche. Il compositore rifiuta arrivando addirittura a preparare una versione francese per dare la prima a Parigi. Intando tutta l'opinione pubblica ne parla e gli studenti si appropriano dell'opera ancora prima di vederla rappresentata. Sembra paradossale, ma il barbuto e anziano professore diventa un'icona della rivolta giovanile e gli studenti universitari vanno all'assalto delle istituzioni gridando "kirikikuku!" Il verso del galletto meccanico.
Morale: a Rimsky viene un infarto, i teatri imperiali rifiutano l'opera che invece viene accolta -non senza polemiche- dalla compagnia privata di Solodovnikov e il Gallo d'oro è rappresentato postumo.
Detto questo passiamo ai profili dei personaggi.
Il protagonista è lo zar Dodon, basso. L'estensione e la tessitura sono quelli di Boris. Non a caso alcuni dei più celebrati Boris hanno affrontato questo personaggio. Didur e Pinza furono due osannati Dodon al Met. Il primo passò lo scettro al secondo. Anche Christoff ebbe in reprtorio il ruolo. Purtroppo molti interpreti recenti (tra tutti Nesterenko e Burchuladze ma anche Rydl e Triegle) hanno affrontato il personaggio sottolineandone gli aspetti grotteschi, calcando il pedale, eccedendo in effetti caricaturali di matrice slava. Nasalità, ricorso al parlato, portamenti ogni dove. In pratica a Dodon è toccata la stessa sorte dei buffi rossiniani pre-renaissance. Non c'è bisogno di dire quanto questo atteggiamento impoverisca il ruolo. Dodon, infarcito di caccole, diventa un pupazzone da fiera, uno scemotto ingenuo, di quelli a cui basta vedere una ragazzina mezza nuda per perdere la testa.
Dodon è altro. In primo luogo è l'esemplificazione scenica di "come" la Russia fosse retta agli inizi del secolo scorso. Ma questo, forse, agli spettatori odierni può anche non interessare.
Quello che invece rende il personaggio affascinante anche nel nuovo millennio è la sua immensa, tenera, fragilità. Dodon è come un grande imprenditore, un potente politico, un dittatore onnipotente che si accorge della vecchiaia. Non ha mai delegato nessuna decisione, ha sempre mantenuto il controllo di ogni dettaglio e quindi è circondato da inetti che altro non fanno che dirgli quello che lui vuole sentirsi dire. I nemici (definiti così genericamente nell'opera) premono alle frontiere e un'invasione è imminente. Ma Dodon è stanco, depresso, demotivato. Vuole solo dormire e sognare. Vuole che qulcun'altro si occupi della faccenda. Si affida quindi ad un Astrologo che gli offre un galletto meccanico. Lui farà da sentinella e lo avvertirà quando i nemici si faranno vicini. Dodon è contento. Può finalmente dormire e sballarsi in antichi sogni di gloria e di sesso. Però il gallo canta continuamente perchè i pericoli ci sono e sono reali. Dodon decide quindi di mettersi in marcia contro il nemico. Raccoglie un'esercito ormai bolso e demotivato, si infila in un'armatura troppo stretta (gli andava bene da giovane), monta su un cavallo che, testuale, deve essere tranquillo come una vacca, e parte. Mentre marcia contro il nemico si imbatte nella seconda figura sovrannaturale dell'opera. La principessa di Chemaka. Una bellissima giovane che risveglia nel vecchio sovrano sogni di passione giovanile. Non gli interessa più la sorte del regno, la battaglia, la propria dignità. Sposa la principessa e la porta nella capitale. Qui lo attende l'Astrologo che gli chiede, in cambio del galletto d'oro, la bella principessa. Dodon rifiuta e percuote con lo scettro l'Astrologo. Il gallo meccanico si avventa sul sovrano e, a colpi di becco, gli spacca il cranio. Rimsky lascia il finale aperto. Un coro malinconico e tetro chiude l'opera. Il regno sprofonda nel caos mentre in orchestra risuona il verso del galletto, spettrale e sinistro.
Che un tale personaggio non possa essere risolto esclusivamente in chiave buffa, è scontato. Più difficile è trovare un cantante che sappia sfumarne i tratti, restituirne le fragilità, trasmetterne le amarezze. E invece niente. Anche il recente Dodon dello Chatelet con Nagano (Schagidullin) non fa eccezione. Invece che essere un Boris destituito troviamo un Varlaam incoronato.
Io ho in mente un nome: Finley. Basta con i tromboni da palcoscenico.
Il secondo personaggio chiave dell'opera è la principessa di Chemaka
Soprano di coloratura dall'estensione abnorme (dal si sotto al rigo al Mi sovracuto) è stata sempre affidata al classico soprano macinatrice di Ofelie, Lucie, Regine della Notte, Olympie. Considerata come una Lakmé russa, la principessa di Chenìmaka ha perso per strada il suo colore sinistro e spaventoso.
Anche lei è una creatura sovrannaturale, cugina stretta del gallo d'oro, forse anche lei meccanica. E' una sorta di extraterrestre. Si esprime ovviamente tramite melodie tornite, luminose, seducenti, ma a tratti la linea vocale è come interrotta da improvvisi e bruschi scarti rabbiosi, come se qualcosa di sotterraneo volesse erompere. Senti che c'è qualcosa di spaventoso che è imbrigliato a stento. Deve saltar fuori la perfidia, la durezza e allo stesso tempo la forza seduttiva che Rimsky e il suo librettista ci offrono senza mezze misure.
Pensate cosa dice nella scena di seduzione al secondo atto:
È scura e stretta
la mia graziosa tenda.
I tappeti sono morbidi…
Tesoro vuoi vederne l’interno?
Dodon le risponde
Perché mi ferisci
in questo modo?
Io non sono vecchio,
non ho rughe
E lei
Il piccolo uccello ha cinguettato troppo,
ora è piuttosto affaticato
E prima
Come agili onde, i miei capelli neri
liberati dai fronzoli
cadono in cascata
sulle mie anche marmoree…
Per rinfrancare e tonificare il mio sonno
la notte, io mi aspergo di rugiada:
sui miei seni, essa ruscella
in goccioline di fuoco.
E che seni che ho!
Alla giovane rosa, esso disputano lo splendore,
superbo e generoso… E come i sogni,
sono leggeri, pallidi e diafani…
Il tutto nello splendore del Rimsky Korsakoff più scatenato nell'inventare prodigi timbrici di inarrivabile bellezza.
Io, pensate un po', dopo avere girato e rigirato sulle scelte più prevedibili come Damrau e Petibon sono arrivato alla Kermes.
Lei potrebbe sfruttare a meraviglia quei suoni strani che usa nel repertorio barocco, magnificare il suo sperimentalismo che da molti è osteggiato in altri titoli.
Resta l'Astrologo, che canta poco ma che ha una tessitura (anche lui è un essere soprannaturale) improponibile.
Tenore sovracuto si spinge fino al Mib.
Qui Rimsky mette le mani avanti nella prefazione dello spartito. Di base sceglie un controtenore (nel racconto di Puskin l'Astrologo è un castrato) ma dice che può andare anche un tenore contraltino che sappia salire in falsettone.
Qui lascio la palla a voi perchè devo andare a pranzo.
Come sempre, vorrei scrivere due righe e guardate cosa è venuto fuori.......
WSM
E' l'ultima opera di Rimsky e senza dubbio quella più popolare in Occidente. A partire dalla prima del Solodovnikov del 1909 il titolo non è praticamente mai uscito di repertorio e viene allestito se non con frequenza, almeno con costanza.
E' un capolavoro di ingegneria orchestrale, tecnica teatrale e sintesi drammaturgica.
Nessun'altro titolo di Rimsky può vantare questa asciuttezza narrativa unita a una fluidità affabulatoria così priva di retorica.
Inoltre è un capolavoro "spartiacque"; di quelli che segnano la fine di un'epoca per aprirne una nuova. Mi stupisco che molti appassionati e critici non ne abbiano sottolineato a dovere l'importanza. Il Gallo d'oro è il classico "collo di bottiglia" attraverso cui gli spettatori e i compositori devono necessariamente "passare" per capire l'evoluzione di un genere. Il Gallo d'oro sta all'opera russa come il Falstaff sta a quella italiana o il Tristano a quella tedesca. A pieno diritto rientra tra quei che titoli hanno cambiato il mondo dell'Opera, di quelli che hanno girato pagina e da cui nessuno può prescindere.
Basta ascoltare le primissime note dell'opera - il chicchiricchì del gallo costruito sulla scomposizione dell'accordo di Re bemolle strillato dalle trombe con sordina- per rendersi conto di assistere a un cambiamento epocale. Il mondo delle Tatiane e degli Igor, ma anche dei Boris e dei Dosifej, delle bilyne e dei canti epici è definitivamente tramontato. Il Gallo d'oro anticipa la Katerine Ismajlove, le Renate, gli Edipi, le Suite Scite e le Sagre della primavera.
Il morbido e vellutato colore orchestrale di Rimsky è in quest'opera inasprito di sonorità taglienti, spigolose; è come se sopra un quadro di Repin fosse passato Kandinsky. La fiaba c'è sempre, ovviamente, ma in questo caso diventa dolceamara, per nulla consolatoria. Il fasto delle scene d'insieme non ha nulla a che invidiare con i titoli precedenti in quanto a magia sonora e spettacolarità teatrale; ma è un fasto dal sapore grottesco, quasi felliniano, disturbante.
Il Gallo d'oro è stata inoltre un'opera sovversiva.
Pensare a Rimsky-Korsakoff come un sovversivo fa sorridere. Nei dipinti d'epoca troviamo un maturo signore occhialuto, serio e grave.
Tra l'altro una distorta visione sia critica che musicologica ce l'ha sempre ritratto come un burocrate della musica, un professore di conservatorio formidabile sotto il profilo tecnico ma privo di autentico genio. Molti sono ancora convinti che Rimsky sia soltanto quello che ha scritto la Sheherazade e "rovinato" il Boris. Un Beckmesser tutta tecnica e niente poesia.
Invece, a fine corsa, quando ormai poteva tranquillamente godersi gli ori e gli onori di una formidabile carriera accademica fece una scelta del tutto impopolare.
All'epoca di Rimsky la Russia non era un paese molto diverso da quello raccontato nella Kovanchina. Retto in maniera feudale, sordo ad ogni innovazione, culturalmente colonizzato dalla Francia e dall'Italia, privo di un esercito in grado di difendere un territorio di quelle proporzioni, con la flotta decimata dalla guerra contro il Giappone, corrotto in ogni settore, schiacciato da un immane e costoso apparato burocratico, l'impero di Nicola II comincia a scricchiolare sotto i colpi dei fucilieri che, il 9 gennaio del 1905, fanno fuoco su una pacifica dimostrazione di 120.000 cittadini; ne uccidono duecento e ne feriscono più di un migliaio. La famosa "domenica di sangue" ha ripercussioni enormi anche in ambito culturale. Nel conservatorio in cui Rimsky è insegnante autorevole e venerato, molti studenti, diremmo oggi, occupano la struttura e ne decretano la chiusura fino all'anno successivo. Il collegio dei docenti si riunisce e chiama la polizia dopo averle consegnato i più facinorosi. Attorno all'edificio si forma un cordone di manifestanti che affronta le bastonate dei militari. E' inutile; la polizia ha la meglio, porta in carcere alcuni studenti dove alcuni subiscono dure sevizie. Rimsky-Korsakoff (chi mai se lo sarebbe aspettato?) si schiera dalla parte dei ragazzi e scrive un feroce articolo che passa i confini del paese. Rimsky accusa apertamente i colleghi e la Società Musicale Russa di aver consegnato senza ragione alcuni studenti alla sevizie della polizia. Questo pezzo porta alle dimissioni l'allora direttore del Conservatorio; ma il contraccolpo non tarda ad arrivare. All'indomani dell'articolo Rimsky viene espulso dalla Società Musicale Russa ed i rapporti con la corte e con l'aristocrazia (praticamente i teatri e la vita musicale sono in mano loro) sono chiusi in maniera definitiva. La polizia zarista comincia a tenerlo d'occhio in quanto pericoloso sobillatore di idee rivoluzionarie.
Questo lungo preambolo serve a capire perchè Rimsky cominciò a pensare al Gallo d'oro.
Il racconto di Pushkin da cui è tratto il libretto era già stato aoggetto di aspre polemiche al suo apparire.
La storia dello zar Dodon, vecchio e stanco, che non vuole più regnare ma solo dormire e che affida le sorti del regno ad un gallo-sentinella meccanico e capitola di fronte alle seduzioni di una giovane ninfetta portando il paese allo sfascio non poteva lasciare tranquilla la censura. Censura che chiede a Rimsky radicali modifiche. Il compositore rifiuta arrivando addirittura a preparare una versione francese per dare la prima a Parigi. Intando tutta l'opinione pubblica ne parla e gli studenti si appropriano dell'opera ancora prima di vederla rappresentata. Sembra paradossale, ma il barbuto e anziano professore diventa un'icona della rivolta giovanile e gli studenti universitari vanno all'assalto delle istituzioni gridando "kirikikuku!" Il verso del galletto meccanico.
Morale: a Rimsky viene un infarto, i teatri imperiali rifiutano l'opera che invece viene accolta -non senza polemiche- dalla compagnia privata di Solodovnikov e il Gallo d'oro è rappresentato postumo.
Detto questo passiamo ai profili dei personaggi.
Il protagonista è lo zar Dodon, basso. L'estensione e la tessitura sono quelli di Boris. Non a caso alcuni dei più celebrati Boris hanno affrontato questo personaggio. Didur e Pinza furono due osannati Dodon al Met. Il primo passò lo scettro al secondo. Anche Christoff ebbe in reprtorio il ruolo. Purtroppo molti interpreti recenti (tra tutti Nesterenko e Burchuladze ma anche Rydl e Triegle) hanno affrontato il personaggio sottolineandone gli aspetti grotteschi, calcando il pedale, eccedendo in effetti caricaturali di matrice slava. Nasalità, ricorso al parlato, portamenti ogni dove. In pratica a Dodon è toccata la stessa sorte dei buffi rossiniani pre-renaissance. Non c'è bisogno di dire quanto questo atteggiamento impoverisca il ruolo. Dodon, infarcito di caccole, diventa un pupazzone da fiera, uno scemotto ingenuo, di quelli a cui basta vedere una ragazzina mezza nuda per perdere la testa.
Dodon è altro. In primo luogo è l'esemplificazione scenica di "come" la Russia fosse retta agli inizi del secolo scorso. Ma questo, forse, agli spettatori odierni può anche non interessare.
Quello che invece rende il personaggio affascinante anche nel nuovo millennio è la sua immensa, tenera, fragilità. Dodon è come un grande imprenditore, un potente politico, un dittatore onnipotente che si accorge della vecchiaia. Non ha mai delegato nessuna decisione, ha sempre mantenuto il controllo di ogni dettaglio e quindi è circondato da inetti che altro non fanno che dirgli quello che lui vuole sentirsi dire. I nemici (definiti così genericamente nell'opera) premono alle frontiere e un'invasione è imminente. Ma Dodon è stanco, depresso, demotivato. Vuole solo dormire e sognare. Vuole che qulcun'altro si occupi della faccenda. Si affida quindi ad un Astrologo che gli offre un galletto meccanico. Lui farà da sentinella e lo avvertirà quando i nemici si faranno vicini. Dodon è contento. Può finalmente dormire e sballarsi in antichi sogni di gloria e di sesso. Però il gallo canta continuamente perchè i pericoli ci sono e sono reali. Dodon decide quindi di mettersi in marcia contro il nemico. Raccoglie un'esercito ormai bolso e demotivato, si infila in un'armatura troppo stretta (gli andava bene da giovane), monta su un cavallo che, testuale, deve essere tranquillo come una vacca, e parte. Mentre marcia contro il nemico si imbatte nella seconda figura sovrannaturale dell'opera. La principessa di Chemaka. Una bellissima giovane che risveglia nel vecchio sovrano sogni di passione giovanile. Non gli interessa più la sorte del regno, la battaglia, la propria dignità. Sposa la principessa e la porta nella capitale. Qui lo attende l'Astrologo che gli chiede, in cambio del galletto d'oro, la bella principessa. Dodon rifiuta e percuote con lo scettro l'Astrologo. Il gallo meccanico si avventa sul sovrano e, a colpi di becco, gli spacca il cranio. Rimsky lascia il finale aperto. Un coro malinconico e tetro chiude l'opera. Il regno sprofonda nel caos mentre in orchestra risuona il verso del galletto, spettrale e sinistro.
Che un tale personaggio non possa essere risolto esclusivamente in chiave buffa, è scontato. Più difficile è trovare un cantante che sappia sfumarne i tratti, restituirne le fragilità, trasmetterne le amarezze. E invece niente. Anche il recente Dodon dello Chatelet con Nagano (Schagidullin) non fa eccezione. Invece che essere un Boris destituito troviamo un Varlaam incoronato.
Io ho in mente un nome: Finley. Basta con i tromboni da palcoscenico.
Il secondo personaggio chiave dell'opera è la principessa di Chemaka
Soprano di coloratura dall'estensione abnorme (dal si sotto al rigo al Mi sovracuto) è stata sempre affidata al classico soprano macinatrice di Ofelie, Lucie, Regine della Notte, Olympie. Considerata come una Lakmé russa, la principessa di Chenìmaka ha perso per strada il suo colore sinistro e spaventoso.
Anche lei è una creatura sovrannaturale, cugina stretta del gallo d'oro, forse anche lei meccanica. E' una sorta di extraterrestre. Si esprime ovviamente tramite melodie tornite, luminose, seducenti, ma a tratti la linea vocale è come interrotta da improvvisi e bruschi scarti rabbiosi, come se qualcosa di sotterraneo volesse erompere. Senti che c'è qualcosa di spaventoso che è imbrigliato a stento. Deve saltar fuori la perfidia, la durezza e allo stesso tempo la forza seduttiva che Rimsky e il suo librettista ci offrono senza mezze misure.
Pensate cosa dice nella scena di seduzione al secondo atto:
È scura e stretta
la mia graziosa tenda.
I tappeti sono morbidi…
Tesoro vuoi vederne l’interno?
Dodon le risponde
Perché mi ferisci
in questo modo?
Io non sono vecchio,
non ho rughe
E lei
Il piccolo uccello ha cinguettato troppo,
ora è piuttosto affaticato
E prima
Come agili onde, i miei capelli neri
liberati dai fronzoli
cadono in cascata
sulle mie anche marmoree…
Per rinfrancare e tonificare il mio sonno
la notte, io mi aspergo di rugiada:
sui miei seni, essa ruscella
in goccioline di fuoco.
E che seni che ho!
Alla giovane rosa, esso disputano lo splendore,
superbo e generoso… E come i sogni,
sono leggeri, pallidi e diafani…
Il tutto nello splendore del Rimsky Korsakoff più scatenato nell'inventare prodigi timbrici di inarrivabile bellezza.
Io, pensate un po', dopo avere girato e rigirato sulle scelte più prevedibili come Damrau e Petibon sono arrivato alla Kermes.
Lei potrebbe sfruttare a meraviglia quei suoni strani che usa nel repertorio barocco, magnificare il suo sperimentalismo che da molti è osteggiato in altri titoli.
Resta l'Astrologo, che canta poco ma che ha una tessitura (anche lui è un essere soprannaturale) improponibile.
Tenore sovracuto si spinge fino al Mib.
Qui Rimsky mette le mani avanti nella prefazione dello spartito. Di base sceglie un controtenore (nel racconto di Puskin l'Astrologo è un castrato) ma dice che può andare anche un tenore contraltino che sappia salire in falsettone.
Qui lascio la palla a voi perchè devo andare a pranzo.
Come sempre, vorrei scrivere due righe e guardate cosa è venuto fuori.......
WSM