Agostino Steffani, chi era costui?
Inviato: gio 07 ott 2010, 11:48
Fino a qualche giorno fa per me era solo un nome e uno Stabat Mater, poi mi è venuta voglia di andare a vedere al Covent Garden la ripresa di un allestimento di qualche anno fa di una delle sue opere: “Niobe, regina di Tebe”. La curiosità era dovuta soprattutto alla voglia di riuscire ad avere almeno un’idea di cosa era l’opera seria italiana nella seconda metà del ‘600. Fra Monteverdi e Handel, cosa si faceva? In ambito comico alcune riprese di opere di Cavalli un’idea l’hanno data, ma in ambito serio? Per prima cosa devo dire che questa Niobe (rappresentata nel 1688, a Monaco) si è rivelata più o meno il contrario di quanto mi aspettavo. Poco seria, anzitutto, almeno considerando il soggetto: al contrario, un caleidoscopio variegatissimo e shakespeariano di stili alti e bassi, dove dei e semidei (o presunti tali) si alternano a comiche nutrici e dove persino la profetessa Manto non è altro che una ragazzina in calore che cerca di accalappiare un improbabile principe latino. Anche l’essenza del mito di Niobe è appena sfiorato: circa tre quarti delle quasi quattro ore di spettacolo è occupato da intrighi politico-amorosi e solo alla fine Niobe sembra ricordarsi dei suoi figli e della faccenda della sfida agli Dei, più che altro, si sospetta, per dare l’occasione di un finale tragico.
Lo stile musicale si Steffani, d’altro canto, è emblematico della sua formazione: nacque in veneto, dove iniziò a studiare musica; a tredici anni venne portato in Germania, dove rimase in pratica per il resto della vita, facendo però numerosi viaggi in Italia e in Francia. Il risultato è uno stile dove si alternano e a volte si fondono l’antico recitar cantando monteverdiano con arie già in odore di Handel (il quale, per inciso, conosceva personalmente Steffani e possedeva diversi suoi lavori, e si sente…); arie accompagnate dal solo basso continuo con ritmi di danza che profumano di tragédie lyrique. Certo è che quest’opera (e immagino che per le altre dello stesso autore varrebbe lo stesso) mi sembra un anello importante nell’evoluzione del genere, e a questo proposito ripropongo il quesito di prima: quale vi sembrano i passaggi fondamentali nell’evoluzione del genere “opera seria italiana” (con le approssimazioni che tale definizione implica) nella seconda metà del ‘600? Ossia: come si arriva da Monteverdi a Handel? Io, confesso, le idee le ho ancora tutt’altro che chiare…
Venendo alla parte esecutiva, devo dire che si tratta innanzi tutto dell’unico modo sensato di affrontare operazioni di questo genere. L’unico punto relativamente debole era la messinscena: lo spettacolo di Hemleb è bello, di gran gusto, con alcune splendide trovate, ma si limita, appunto, a “mettere in scena” una storia, senza indagarne la drammaturgia interna e, soprattutto, senza nemmeno cercare di trovare un linguaggio adatto a rendercela contemporanea. Hengelbrock era il vero deus ex machina dell’operazione, capace di affrontare un’esegesi completa della partitura (di cui lo stesso ha approntato l’edizione) e di trasformare poi tutto il lavoro preparatorio in teatro vero (per inciso: interessante l’idea delle sorellastre Wagner di affidargli il Tannhäuser della prossima estate…). Cast notevole. Due controtenori (tre in realtà, ma il terzo è marginale) esattamente speculari: il polacco Laszczkowski, con una voce modesta e ormai un filo usurata ma dalle notevoli capacità espressive, ha ottenuto un ben meritato trionfo, e del resto il personaggio di Anfione è veramente straordinario, con alcune delle più belle arie che il repertorio barocco possa offrire (una in particolare, “Sfere amiche” è memorabile: una lunghissima e sublime meditazione sulla musica delle sfere celesti, organizzata su un ostinato sopra il quale si inseriscono giri armonici che veramente “materializzano” le atmosfere cosmiche che il testo evoca); e l’inglese Iestyn Davies (l’Ottone della Poppea di Carsen) dalla voce invece bellissima ma dalla personalità un filo più ridotta. Su tutto e tutti la straordinaria Véronique Gens come Niobe: una vocalità duttilissima capace di sfumare l’alterigia di fondo del personaggio con tocchi di femminilità ora fragile ora sensuale, culminata nella scena finale (aria? arioso? recitativo? difficile a dirsi…) della pietrificazione. Un’artista che per me si conferma straordinaria, anche se proprio su di lei si avvertiva la mancanza di un lavoro registico vero: se invece della generica ambientazione secentesca le si fosse consentito di raffigurare una donna in carriera a noi contemporanea, il risultato credo sarebbe stato mozzafiato…
Saluti,
Beck
Lo stile musicale si Steffani, d’altro canto, è emblematico della sua formazione: nacque in veneto, dove iniziò a studiare musica; a tredici anni venne portato in Germania, dove rimase in pratica per il resto della vita, facendo però numerosi viaggi in Italia e in Francia. Il risultato è uno stile dove si alternano e a volte si fondono l’antico recitar cantando monteverdiano con arie già in odore di Handel (il quale, per inciso, conosceva personalmente Steffani e possedeva diversi suoi lavori, e si sente…); arie accompagnate dal solo basso continuo con ritmi di danza che profumano di tragédie lyrique. Certo è che quest’opera (e immagino che per le altre dello stesso autore varrebbe lo stesso) mi sembra un anello importante nell’evoluzione del genere, e a questo proposito ripropongo il quesito di prima: quale vi sembrano i passaggi fondamentali nell’evoluzione del genere “opera seria italiana” (con le approssimazioni che tale definizione implica) nella seconda metà del ‘600? Ossia: come si arriva da Monteverdi a Handel? Io, confesso, le idee le ho ancora tutt’altro che chiare…
Venendo alla parte esecutiva, devo dire che si tratta innanzi tutto dell’unico modo sensato di affrontare operazioni di questo genere. L’unico punto relativamente debole era la messinscena: lo spettacolo di Hemleb è bello, di gran gusto, con alcune splendide trovate, ma si limita, appunto, a “mettere in scena” una storia, senza indagarne la drammaturgia interna e, soprattutto, senza nemmeno cercare di trovare un linguaggio adatto a rendercela contemporanea. Hengelbrock era il vero deus ex machina dell’operazione, capace di affrontare un’esegesi completa della partitura (di cui lo stesso ha approntato l’edizione) e di trasformare poi tutto il lavoro preparatorio in teatro vero (per inciso: interessante l’idea delle sorellastre Wagner di affidargli il Tannhäuser della prossima estate…). Cast notevole. Due controtenori (tre in realtà, ma il terzo è marginale) esattamente speculari: il polacco Laszczkowski, con una voce modesta e ormai un filo usurata ma dalle notevoli capacità espressive, ha ottenuto un ben meritato trionfo, e del resto il personaggio di Anfione è veramente straordinario, con alcune delle più belle arie che il repertorio barocco possa offrire (una in particolare, “Sfere amiche” è memorabile: una lunghissima e sublime meditazione sulla musica delle sfere celesti, organizzata su un ostinato sopra il quale si inseriscono giri armonici che veramente “materializzano” le atmosfere cosmiche che il testo evoca); e l’inglese Iestyn Davies (l’Ottone della Poppea di Carsen) dalla voce invece bellissima ma dalla personalità un filo più ridotta. Su tutto e tutti la straordinaria Véronique Gens come Niobe: una vocalità duttilissima capace di sfumare l’alterigia di fondo del personaggio con tocchi di femminilità ora fragile ora sensuale, culminata nella scena finale (aria? arioso? recitativo? difficile a dirsi…) della pietrificazione. Un’artista che per me si conferma straordinaria, anche se proprio su di lei si avvertiva la mancanza di un lavoro registico vero: se invece della generica ambientazione secentesca le si fosse consentito di raffigurare una donna in carriera a noi contemporanea, il risultato credo sarebbe stato mozzafiato…
Saluti,
Beck