vittoriomascherpa ha scritto:Non ci sono dubbi che, salvo l'occorrenza d'eventi traumatici (tipo abbruciamento della Biblioteca d'Alessandria...) le conoscenze filologiche siano destinate ad aumentare asintoticamente. Però, a mio parere, questo non porta con sé un avvicinamento progressivamente maggiore all'opera "originaria". Infatti, se da una parte non può che accrescerne la conoscenza, per cosí dire, "tecnica", dall'opera antica il tempo ci allontana sempre di piú sia come sensibilità, che continua (o dovrebbe continuare) a mutare per l'accumularsi e l'uso (si spera...) del nuovo; sia anche per il mutare delle condizioni esecutive.
Completamente d'accordo: per questo parlo di "illusione" riferendomi alle cosiddette pratiche autentiche. Come si fa a ricreare una pretesa autenticità - delimitandola ad un solo settore peraltro - quando tutto quel che vi sta intorno muta? Perché l'opera è qualcosa che vive nel tempo e se pure è possibile ricostruire le modalità esecutive (e non lo credo, poiché spesso gli strumenti usati sono copie moderne di quelli antichi, il modo di suonarli come si usava all'epoca è solo ipotizzabile, le stesse scelte di diapason sono assunte in modo convenzionale e "di comodo" - è il caso del 415 Hz che, di fatto, non è mai stato usato, nonostante venga oggi considerato il "diapason barocco" etc...), non è possibile riprodurre l'animus di chi suona e di chi ascolta (nessuna scienza filologica ci può trasformare in uomini e donne del secolo XVII). Senza contare - ribadisco - il fatto che noi oggi non possediamo la verginità d'ascolto dell'epoca e tendiamo a trovare in Monteverdi tracce di sviluppi futuri (lo stesso Henze appunto si rifà esplicitamente a certi stilemi del recitar cantando). Infine il problema degli spazi, del rapporto col pubblico, del rapporto con la libertà dell'esecutore (si consideri che non esistono partiture nel senso moderno del termine), della messinscena (per cui, invece, non prestiamo alcuna attenzione filologica, lasciando mano libera alle attualizzazioni più estreme, così da arrivare ad avere in buca - che neppure c'era all'epoca - tiorbe e arciliuti, mentre sulla scena si agitano signori in abiti e ambientazioni modernissime). E dunque, forse, quello che noi continuiamo a considerare "barocco storicamente informato" è un barocco virtuale, astorico e convenzionale. Una specie di "falso autentico" (quello che qualcuno chiamerebbe - con espressione ormai abusata - "post moderno"). Pertanto - ma è un dubbio personale - non è forse più "autentico" l'approccio di Henze che mette da parte le pretese di riprodurre una prassi di fatto irriproducibile, ma estrapola da quegli scheletri musicale una vita nuova che comunica con la nostra modernità? La musica non è un quadro che, salvo danneggiamenti, ci perviene com'era quando fu dipinto (anche se ciò che suscita in noi è probabilmente diverso da quanto accadeva 400 anni fa), ma necessita di un medium per essere compresa. E lo strumento necessariamente vive nell'oggi. Senza contare, poi, che l'interesse per Monteverdi non nasce oggi - con le ricerche intorno alla prassi esecutiva e alle sue regole - ma si affaccia in epoca prefilologica evidentemente per la percezione di vicinanza di contenuti da coordinare con la distanza della forma: penso alle rielaborazioni monteverdiane di Orff, la cui eco si ritrova in sue opere successive (Antigonae, Prometheus ed Oedipus de Tyrann) in un continuum che - passando anche per Henze - arriva a Reimann.