teo.emme ha scritto:Peraltro anche Wagner - ad un certo punto della sua carriera - scrive musica in modo che oggi potremmo definire autoreferenziale poiché privo di committenza e con l'intento -. dichiarato - di "formare" un nuovo tipo di pubblico senza nulla concedere a quello tradizionale. Se dunque Wagner scrive per "iniziati" con intenti didascalici, perché non concedere lo stesso a certe esperienze del '900? In fondo perseguono un fine molto simile con mezzi rapportati alla propria epoca. Siamo così sicuri che l'effetto di una musica svincolata dal linguaggio tonale sia molto diverso da quello che, a metà '800 era la rivoluzione d'ascolto wagneriana? Qual'è il fine della musica parlare alla propria epoca o della propria epoca? Oppure parlare di un'epoca futura?
Ma in verità credo che nessuno contesti il “diritto” (anzi, io parlerei quasi di “dovere”) di provarci… Era l’unica strada che avevano… Semmai si tratta di verificare i risultati: e su questo punto il paragone con Wagner mi sembra non regga. Certo, anche Wagner aveva più o meno fatto lo stesso, con la differenza che in quel caso il pubblico lo ha seguito, direi quasi da subito. Da subito il suo tentativo (nell’accettazione come nel rifiuto) è stato capito e “metabolizzato”. Con le “avanguardie novecentesche” (e metto il termine fra virgolette perché mi sembra chiaro quanto sia semplicistico e superficiale), no… Malgrado gli sforzi, il pubblico non li ha seguiti: ancora oggi, persino un Pollini, se vuole presentare un brano di Boulez o Stockhausen, deve accoppiarlo con una sonata di Beethoven, altrimenti giocherebbe a briscola in cinque con gli spettatori…
Resterebbe da chiedersi la ragione del fallimento: è un problema di “linguaggio” scelto (nel senso che una musica sganciata dal sistema tonale, tranne alcune temporanee eccezioni, non riesce per sua natura a reggersi) o di persone (nel senso che QUEI musicisti non sono riusciti a trovare una soluzione)?
A mio parere, è un mix delle due cose. Qualsiasi forma d’arte (mi si scusino i concetti da estetica da quattro soldi, ma per approfondire degnamente si andrebbe troppo lunghi…) consiste nello sviluppare un linguaggio per esprimere un contenuto. Di solito, l’evoluzione del linguaggio è stimolata dalla necessità di esprimere contenuti che non riescono più ad essere espressi con le forme disponibili in un dato momento (l’esempio fatto di Wagner mi sembra emblematico in tal senso). Più cerco di approfondire i risultati delle “avanguardie novecentesche” (vedi sopra…), più mi sembra che si siano poste SOLO il problema del linguaggio: a tutt’oggi, non mi è chiaro quali contenuti volessero (o sentissero la necessità di) esprimere. Il risultato è qualcosa di stimolante intellettualmente, interessante didatticamente, affascinante storicamente, ma alla fine: autoreferenziale. Al pubblico il linguaggio interessa come strumento, non come fine…
Anche la scusa solita (“è musica difficile per il pubblico”), non credo che regga: la musica di Boulez, per il pubblico della seconda metà del ‘900, non era più difficile di quella di Wagner nel 1870 o di Berg nel 1925. È solo che in quei casi le sconvolgenti novità di linguaggio passavano in secondo piano, “giustificate” dalle novità dei contenuti, che erano perfettamente allineate con le rispettive epoche…
Del resto, mi sembra emblematico che, al di là del valore della sua propria musica (che indubbiamente c’è, ci mancherebbe) una vera ed indiscutibile grandezza Boulez l’abbia trovata come interprete di musica altrui, in cui era altrettanto (se non anche più) innovatore e rivoluzionario che come autore: ma in quel campo il pubblico (dopo qualche mugugno iniziale nel caso del Ring) lo ha seguito benissimo e ha capito tutto…
Saluti,
Beck