Baritono. tipologia vocale e sue radici

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Baritono. tipologia vocale e sue radici

Messaggioda Rodrigo » lun 19 apr 2010, 22:38

Ero incerto se scrivere su questo post o su quello di Cigada. Ai moderatori il mandato eventualmente di spostare.
Chiedo scusa in anticipo se sarò un po' ingarbugliato nell'esprimere la mia idea sulla voce del baritono.
Ritengo che il problema di fondo è che la voce di baritono, in un certo senso, NON ESISTE.
E' un fatto che fino a Donizetti si è andati avanti allegramente ignorando questa "fascia vocale". Esistevano alcuni bassi dal timbro piuttosto chiaro e capaci di acuti pieni che preferibilmente, ma non esclusivamente (Tamburini cantava anche Assur), cantavano repertorio buffo. Esisteva poi il tenore della linea Nozzari-Donzelli che faceva era dotato di un centro molto più polposo e brunito rispetto alla linea concorrente David-Rubini che viceversa aveva un colore chiarissimo e tendeva all'angelico, al trasumanato (il Sinclair creatore di Idreno è in questa linea). Nell'opera seria rossiniana, spesso, la rivalità è tra Nozzari (il cattivo) e David (il buono).
POi un bel giorno arriva l'estetica romantica, cioè l'estetica del "vero" (in senso manzonian-verdiano) e dell'esasperazione dei contrasti. Così Duprez inventa il do "a piena voce" e gli acuti in falsettone cari a Rossini (e a Bellini) passano di moda. Donzelli, per inciso, il Do di Meco all'altar di Venere non l'avrebbe preso "di petto" con nessun diapason al mondo, a Bellini bastava il falsettone. Contemporaneamente si fa strada l'idea che il basso deve essere un vero basso, perché? Perché deve fare il vecchio padre (nel Tancredi lo faceva il tenore!!!!!), il sacerdote, il re. E così i tenori "scuri" e i bassi non bassi, emarginati dai contesti originari, pian pianino danno luogo ad una voce intermedia, autentica che "eredita" in fondo il ruolo del vecchio tenore Nozzari l'antagonista del tenore chiaro (ormai tenore tout court), anche nell'opera buffa.
E Donizetti diventa il profeta di questa nuova vocalità.Se la Lucia fosse stata scritta nel 1818 o giù di lì scommetto che in partitura sarebbero stati tenori sia Edgardo che Enrico!
Il problema grosso sorge con Giuseppe Verdi. Al baritono il buon Verdi "allarga" i poteri fino all'inverosimile, in qualche caso sconfinando in terreni lasciati solitamente al basso (d aun punto di vista drammaturgico) in altri riprendendo certi aspetti del tenore alla Nozzari. Così abbiamo ruoli a vocazione "anziana" e /o paterna (Rigoletto, Macbeth, Germont,Monforte, Amonasro, Simone, Falstaff) e ruoli a vocazione "giovanile" (Nabucco, Carlo V, Luna, Carlo di Vargas, Rodrigo, JAGO). A questa differenziazione drammaturgica, va detto chiaramente, non è detto che corrisponda la tessitura così ad es. Rigoletto è parte piuttosto acuta. Proprio qui sorge dunque un problema di "coperta corta".
Cosa succede infatti in sede esecutiva? Abbiamo interpreti con un colore vocale bellissimo, ma che li rende poco credibili nei ruoli "giovanili". Bruson come Carlo V fa ridere, vi sembra un giovane aristocratico in vena di piaceri libertini? MADDAIIIII!!!!! Viceversa sarebbe perfetto nei ruoli "anziani" come Rigoletto, ma le note acute sono proprio a posto? Fisher Dieskau è grandioso come Rigoletto, ma io non ci sento la voce del papà di Gilda, semmai del fratello maggiore :)
Per mio gusto,e chiudo, le parti veramente impossibili (per essere credibili) sono il conte di Luna e Carlo V dell'Ernani. Qui la corda baritonale dovrebbe esprimere un quid di giovanile tale da guardare negli occhi, rispettivamente, Manrico e don Giovanni d'Aragona. E invece, quasi sempre, si sentono delle meravigliose cavate che spostano la carta d'identità del personaggio troppo in avanti! Persino Tagliabue buonanima nel Balen del suo sorriso mi ricorda più un signore di mezza età che ricorda gli amori del liceo che non un gagliardo hidalgo in preda a stilnovistici (chi lo nega) trasporti.
Rodrigo
 
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Re: Baritono. tipologia vocale e sue radici

Messaggioda MatMarazzi » gio 22 apr 2010, 15:23

Caro Rodrigo,
premetto che trovo interessantissimo quanto scrivi, perché allude a problemi di vasta portata (e a me molto cari).

Ci sono due modi per "concepire" le ripartizioni vocali, le "tipizzazioni" in cui facciamo rientrare i vari ruoli del repertorio (soprani, tenori, contralti, ecc... per non parlare di lirici,drammatici, lirico-spinti, sfogati, lirico-leggeri, e via farneticando)

- La prima "concezione" è quella meramente "fisica": si analizza una voce, le sue caratteristiche (un colore così, una potenza così, un'estensione così) e in base a ciò si stabilisce non solo la sua "appartenenza" a qualche gruppo predefinito, ma addirittura (e questo è grave) il repertorio che dovrà affrontare.
Questa suddivisione "fisica" è la più antica; fu decisa prima che nascesse l'opera, prima che i repertori si complicassero attraverso i secoli; prima che si moltiplicassero le scuole di canto "classico" e "non classico".
Soprano, Tenore, Alto, Basso furono i primi tentativi di distinguere (sulla base dell'altezza del suono) le voci.
In effetti non è possibile fare a meno di questa primitiva distinzione (le caratteristiche della voce). Ma, come cercherò di dimostrare, non basta.
E' proprio perché non basta che, nel corso dei tempi, abbiamo dovuto inserire sempre nuovi sottogruppi e sottogruppetti fino al puro e semplice delirio (solo per restare fra le definizioni italiane, soprani lirici, soprani drammatici, soprani leggeri, soprani lirici-drammatici, lirico-leggeri, lirico-spinti, lirici "puri", sfogati, drammatici d'agilità, addirittura idiozie che ho talvolta letto come "lirico spinto d'agilità" per disitnguere una Gencer da una Callas, ecc... ).
Ma sorpattutto questa prima concezione può anche aiutarci a definire le "voci" e a classificarle (non considerando le evoluzioni e i cambiamenti che una voce incontra lungo la vita del cantante) ma non a definire i "ruoli".
In pratica, con l'analisi "fisica" si può arrivare - forse - a definire la voce di Bastianini, non le caratteristiche "oggettive" del Conte di Luna.
ciò in cui la concezione "fisica" fallisce è appunto questo: nel legame fra tipo di voce e repertorio che pure... teoricamente sarebbe il fine, la ragione stessa della tipizzazione.

- La seconda "concezione" non prescinde dalla prima, ma è consapevole della sua inadeguatezza e dunque la arricchisce di ulteriori elementi, assai più importanti: come la riflessione storica, la comprensione della "dinamica" ruolo-interprete, l'evoluzione delle convenzioni attraverso i tempi.
Le distinzioni non si fondano più su questioni meramente fisiche, bensì su convenzioni in evoluzione, che fondono agli elementi "fisici", anche altri di tipo prettamente storico e culturale.
In fondo parliamo di arte, non di biologia.

I danni a cui può condurre un'applicazione rigida della prima "concenzione", quella esclusivamente fisico-tecnica, sono sotto gli occhi di tutti: da un lato l'incapacità di arrivare a una seria distinzione fra i ruoli; dall'altro i clamorosi errori di distribuzione nei cast del passato e del presente, unica vera causa di spettacoli fallimentari.

Il problema è che anche il pubblico e gli operatori sono spesso "vittima" della semplicioneria della "prima concezione" (anche i cantanti stessi se è per questo).
E non mi riferisco solo ai luoghi comuni da loggionerie, con i loro patetici "quello non è un mezzosoprano, ma un soprano corto", oppure "non esiste più il vero baritono verdiano".
Mi riferisco soprattutto all'applicazione di un meccanicismo come quello di Fussi, oggi popolarissimo fra cantanti, maestri di canto e dirigenti teatrali, che però io considero un problema non inferiore - per portata - ai lasciti del cellettismo.

Ora... Fussi è un grande studioso, intendiamoci, e le sue ricerche hanno condotto a interessanti approdi teorici e talvolta anche pratici.
Eppure pensare che la misura della lunghezza, della consistenza, dell'elasticità delle corde vocali possa essere il modo per "destinare" una voce a un repertorio (prescindendo da tutte le considerazioni tecnico-stilistiche e vivvaddio artistiche e poetiche)... l'idea stessa che frotte di giovani cantanti vadano da Fussi per farsi "misurare" gli organi fonatori e farsi dire - sulla base di questi criteri - se dovranno cantare Bruennhilde o Violetta, Riccardo del Ballo in Maschera o Dick Johnson.. mi lascia interdetto.
Al di là delle considerazioni artistiche, culturali, storiche (per cui, se fosse stato per Fussi, non avremmo mai avuto l'Isolde della Moedl, l'Amina della Callas, la Lady della Gencer, la Salome della Silja, ecc... ecc.... ecc...), c'è un elemento assolutamente erroneo in questa relazione deterministica "caratteristiche fisiche" -"repertorio".
Essa infatti non tiene conto che se la prima parte (le caratteristiche fisiche) può anche avere - grazie a lui - basi oggettive, non così è la seconda.
Le "note scritte" sullo spartito (che è ciò che caratterizza l'unico elemento di oggettività di un ruolo) ci rivelano tante cose, ma tante altre no: lasciano aperte infinite porte in termini di volume, in termini di colore, di relazione con l'orchestra e con le altre voci, di espressività, di stile esecutivo, persino di "tecnica vocale", di emissione di un suono. La storia ci dimostra che tecniche diversissime hanno portato in un medesimo ruolo a risultati ugualmente applauditi dal pubblico (e dunque leciti): infatti in teoria se uno è in grado di fare tutte le note dello spartito ha già assecondato la parte "oggettiva" del personaggio, sia che canti da declamatore, sia che canti da vocalista, sia che canti da colorista, ...sia che canti come Al Bano Carrisi.
E questo vale a livello vocale (Don Giovanni, cantato da tenori, baritoni e bassi... mancano solo i controtenori) come a livello tecnico (Otello cantato da vocalisti e declamatori con egual successo).

Quale tipo di "corde vocali" Fussi riterrebbe giusto per Otello, per esempio?
Quelle di un Arnoldo o di un Raoul (come sarebbe storicamente giusto) o quelle di un Canio e Tristano?
Nella sua definizione del ruolo del Moro (poiché non ha un bel niente da misurare) sarebbe costretto a fondarsi non su dati oggettivi, ma privilegiando (fondandosi sui suoi "gusti" o "conoscenze" di ascoltatore d'opera) una scuola di interpreti rispetto a un'altra.
Il chè non è affatto scientifico.
In pratica se è un ammiratore di Del Monaco, affermerà la relazione "voce centralizzante, drammatica, voluminosa" - "ruolo di Otello"; mentre, se è un nostalgico di Lauri Volpi o studioso di Tamagno, affermerà relazioni del tutto diverse.
Ed è così che un approccio che si vuole scientifico e indiscutibile (a cui i cantanti si rivolgono come a un oracolo) si rivela in realtà soggettivissimo...
Idem se è un nostalgico della Flagstad in Isolde o se invece ammira la Meier...

Ricapitolando, ammesso che Fussi sia "oggettivo" per la prima parte della sua analisi (quello della "misurazione" fisica di un cantante), non lo è, nè può esserlo nella seconda (quella per cui vorrebbe far corrispondere un certo ruolo o un certo repertorio a una determinata tipologia vocale).
Se Fussi restasse alla prima (di cui pure si è fatto a meno per secoli, proprio perché sono altri i criteri che guidano un cantante alla scelta del repertorio) il suo potrebbe anche essere un contributo interessante, seppure principalmente speculativo. Poichè invece ritiene meccanicisticamente di orientare il repertorio degli artisti sulla base delle loro semplici caratteristiche fisiche, allora è veramente nocivo e pericoloso.

Tornando a noi, io credo che le suddivisioni di repertorio siano molto più sottili e "mutevoli" di quanto non possa dirci un'analisi semplicisticamente fisica.
Voglio insistere su questo termini... mutevoli.
Non fisse, ma mutevoli.

Esse sono dettate dall'orizzonte di attesa del pubblico, dai modelli di alcuni grandi cantanti che fanno scuola, dall'uso che di una certa vocalità fa un compositore... e ovviamente tutte si modificano a seconda delle epoche.
E non sono fissate da "metafisiche" suddivisioni, intoccabili, obbiettive, quanto dalle specifiche esigenze - come tu hai dimostrato egregiamente nel tuo post sui baritoni verdiani - dei pubblici, dei cantanti e del compositore, il quale peraltro difficilmente se le inventa; molto più facilmente le "desume" dai cantanti per cui scrive, con cui ha a che fare o ai quali pensa nel momento in cui compone un'opera.

Ecco perché io do tanta importanza ai "creatori" di una determinata opera (cosa che continua a destare perplessità in alcuni partecipanti al forum). Perché a mio avviso se vogliamo trovare una buona Norma è molto più interessante riflettere sulla definizione di "ruolo pasta" (in senso fisico, ma soprattutto tecnico, stilistico e poetico) che non su quella di soprano, o soprano drammatico, o soprano drammatico d'agilità, via via delirando...
E soprattutto è molto più interessante capire il quid del ruolo Pasta, che fare la misura delle corde vocali degli eventuali interpreti.
Se vediamo le cose da questo punto di vista (ciò che ho chiamato la "seconda concezione") allora tutte le tue perplessità sul "baritono donizettian-verdiano" avrebbero la più semplice delle risposte e non ci sarebbe bisogno di spingersi ad affermare che:

Rodrigo ha scritto:la voce di baritono, in un certo senso, NON ESISTE.


No, Rodrigo. Esiste!
Esiste il baritono, e soprattutto esiste il "baritono verdiano" come "tipo non meglio definibile" (note sullo spartito a parte) che - attraverso i tempi e le sperimentazioni - è stato affidato a cantanti di scuola e a "tipologie vocali" molto diverse fra loro.

Come tu benissimo scrivi, è una tipologia che non esisteva prima di Donizetti, ma - scusa la precisazione - non esisteva solo in quante "tipo".
Esisteva invece sicuramente in quanto "voce": chissà quanti baritoni come li intendiamo oggi c'erano anche nel primo '800, solo che - non essendoci una definizione pratica che distinguesse le specificità della loro voce dal "basso cantante" o dal "baritenore" - essi confluivano nell'una o nell'altra tipologia.
E se questa definizione non esisteva, vuol dire che non era importante, che non si faceva corrispondere - come poi ha fatto Verdi - quella specifica sonorità, quella specifica estensione a un contenuto drammatico preciso.

Ecco cosa intendo quando sottolineo l'importanza di considerare sempre e solo "convenzionali" le definizioni vocali.
Se invece di misurare la lunghezza delle corde vocali o scuotere il capo tristemente dicendo che non ci sono più le voci di una volta, noi riflettessimo sull'evoluzione delle definizioni vocali epoca per epoca (ad esempio, constatando l'assenza di baritoni come il Romanticismo li ha definiti almeno fino al 1820 e il fatto che cantanti con quella vocalità fossero, prima di Donizettiani erano "indistinti" e fusi con altre tipologie vocali, oggi magari estinte), allora sarebbe più facile distribuire i ruoli di quell'antico repertorio e scovare - più liberamente - relazioni fra un personaggio e i cantanti giusti.
Ad esempio sfruttanto i nostri attuali "baritoni" in parti che, nel proto-Ottocento, erano scritte in chiave di basso o in chiave di tenore.

Non ti ha stupito, Rodrigo, che Muti (e Badini) abbiano affidato a un perfetto baritono verdiano (Anthony Michaels Moore) una parte che nello spartito è indicata per tenore e che un tenore - dell'epoca - aveva creato, ossia Licinio della Vestale?
Eppure Michaels Moore ci si trovò benissimo, più dello stesso Corelli, che pure era tenore?

Muti e Badini agirono nel modo migliore, ossia considerando proprio quello che tu dici: e così "relativizzarono" le tipizzazioni vocali sulla base di considerazioni storiche, tecniche, espressive e artistiche. Nello stesso modo, sarebbe auspicabile che noi oggi chiamassimo gli attuali baritoni per tanti personaggi scritti per "basso cantante" o per haute-contre, per bari-tenore o per tenore di forza proto-ottocentesco.
Tanto per estremizzare (ma fino a un certo punto) io aspetto da anni che nasca un baritono acuto dotato di ottimo falsetto capace di far rinascere finalmente i veri ruoli Nourrit: Arnoldo del Guglielmo Tell, Ugonotti, Eleazar, Masaniello, Robert le Diable, ecc...
Cos'era Nourrit se non un baritono, incapace di raggiungere di petto persino il do (e col diapason di allora), nota che baritoni novecenteschi come Battistini, Milnes e Cappuccilli potevano raggiungere senza soverchie difficoltà (e col diapason attuale).
Eppure vorrei proprio vedere, in base alle sue misurazioni, a quale tipologia tenorile fussi affiderebbe i ruoli Nourrit...


D'altra parte, le tue considerazioni sono interessanti anche per i ruoli "verdiani".
Se è vero (come è vero) che il baritono verdiano non è altro che l'evoluzione dell'antico baritenore francese-rossiniano, che - spodestato dai ruoli di protagonista dal nuovo tenore acuto e contraltino alla Duprez-Tamberlick - si è ritrovato a fare il deuteragonista, ma che ha mantenuto slanci gagliardi esposizione in acuto (addirittura pianissimi su fa diesis e sol), allora non c'è nulla di male ad affidarne le parti anche agli attuali tenori drammatici (altra tipizzazione che all'epoca di Verdi non esisteva, ma oggi sì).
In quest'ottica - età a parte - non c'è nulla di scandaloso a sentire un Domingo in Boccanegra.
Il suo canto simil-declamatorio e il suo baricentro centralizzante basterebbero da soli a sottolineare la differenza col tenore "tamagnesco" di Gabriele Adorno (uso il condizionale perchè se poi, come è successo alla Scala, si chiama per Adorno un Sartori a sua volta centralizzante e declamatorio, quindi ben poco Tamagensco, oltre che rozzo, è chiaro che il discorso va a farsi benedire).
Per farti un altro esempio, per anni ho sperato che il grande Cura, invece di spaccarsi nei ruoli "tamagneschi" per lui troppo acuti e tecnicamente improbi - si cimentasse con qualche baritono verdiano, ad esempio il Monfort dei Vespri, del quale sarebbe stato interprete fantastico.
Ma vallo a dire ai nostri loggionisti, per i quali la parola "tenore" e la parola "baritono" sono concetti scolpiti nelle tavole della legge.

Ma voglio portare le tue tesi fino in fondo.
Se è vero quel che abbiamo detto finora (ossia che il baritono verdiano non è un modello intoccabile, ma l'evoluzione di altre tipologie drammaturgicamente "riciclate" col passare del tempo) allora la prassi novecentesca di affidare i baritoni di Verdi a cantanti di "stazza" bass-baritonale, con centri nerissimi e volumi perentori (ossia i baritoni che da sempre siamo abituati a considerare "giusti" per Verdi) potrebbe essere considerata una forzatura, lecita ovviamente, proprio perché - come dicevamo sopra - le tipizzazioni sono mutevoli, ma pur sempre forzatura.

Possiamo anche spiegarcela. Quando si è estinto, con Tamagno, il tenore "contraltino", lo si è rimpiazzato con il tenore drammatico nocevecentesco (da Caruso giù giù fino a oggi).
A quel punto il baritono chiaro, acuto, "antico" (come ancora Faure, Battistini, Maurel) non andava più bene, perchè - per timbro ed estensione - assomigliava troppo al tenore.
E così i baritoni verdiani novecenteschi hanno cominciato ad abbassare il loro baricentro, ad esibire voci più scure e gravi (insomma, come dici tu, più "vecchie", più "mature", meno esuberanti, giovanili, passionali).
Se è vera questa ipotesi, allora tanto Gobbi, quanto Bastianini (per non parlare del maestoso Tagliabue, giù giù sino a Bruson, Nucci, ecc..) non andrebbero più assunti a modello vocale di baritono verdiano, per il quale sarebbe preferibile (oggi) un baritono acuto o un tenore baritonale.

REsta da dire che, al di là delle ipotesi storiche, questa recente evoluzione in acuto (che effettivamente si registra) del baritono verdiano si sposa perfettamente alla nostra mentalità da ventunesimo secolo (quella mentalità che ci fa considerare oggi improponibile un Conte di Luna come quello di Tagliabue, mentre ci fa applaudire la giovanile esuberanza di Keenlyside ed Hampson e conduce un Domingo sul soglio dogale di Genova).
E questo rafforza la mia convinzione che le "tipizzazioni vocali" non nascano da mere questioni "fisiche" o deterministiche, bensì culturali, legate strettamente all'evoluzione dei gusti e delle società attraverso i tempi.
Tutti elementi che Fussi - con le sue macchine per le misurazioni - non può considerare... E nemmeno i loggionisti per cui "non esiste più il vero baritono verdiano" (ammettendo e non concedendo, come si è detto prima, che Protti e Bruson lo fossero veramente).

Salutoni e grazie per il magnifico spunto di discussione.
Matteo
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Re: Baritono. tipologia vocale e sue radici

Messaggioda Rodrigo » lun 26 apr 2010, 22:41

MatMarazzi ha scritto:Se è vero (come è vero) che il baritono verdiano non è altro che l'evoluzione dell'antico baritenore francese-rossiniano, che - spodestato dai ruoli di protagonista dal nuovo tenore acuto e contraltino alla Duprez-Tamberlick - si è ritrovato a fare il deuteragonista, ma che ha mantenuto slanci gagliardi esposizione in acuto (addirittura pianissimi su fa diesis e sol), allora non c'è nulla di male ad affidarne le parti anche agli attuali tenori drammatici (altra tipizzazione che all'epoca di Verdi non esisteva, ma oggi sì).
In quest'ottica - età a parte - non c'è nulla di scandaloso a sentire un Domingo in Boccanegra.
Il suo canto simil-declamatorio e il suo baricentro centralizzante basterebbero da soli a sottolineare la differenza col tenore "tamagnesco" di Gabriele Adorno (uso il condizionale perchè se poi, come è successo alla Scala, si chiama per Adorno un Sartori a sua volta centralizzante e declamatorio, quindi ben poco Tamagensco, oltre che rozzo, è chiaro che il discorso va a farsi benedire).
Per farti un altro esempio, per anni ho sperato che il grande Cura, invece di spaccarsi nei ruoli "tamagneschi" per lui troppo acuti e tecnicamente improbi - si cimentasse con qualche baritono verdiano, ad esempio il Monfort dei Vespri, del quale sarebbe stato interprete fantastico.
Ma vallo a dire ai nostri loggionisti, per i quali la parola "tenore" e la parola "baritono" sono concetti scolpiti nelle tavole della legge.

Ma voglio portare le tue tesi fino in fondo.
Se è vero quel che abbiamo detto finora (ossia che il baritono verdiano non è un modello intoccabile, ma l'evoluzione di altre tipologie drammaturgicamente "riciclate" col passare del tempo) allora la prassi novecentesca di affidare i baritoni di Verdi a cantanti di "stazza" bass-baritonale, con centri nerissimi e volumi perentori (ossia i baritoni che da sempre siamo abituati a considerare "giusti" per Verdi) potrebbe essere considerata una forzatura, lecita ovviamente, proprio perché - come dicevamo sopra - le tipizzazioni sono mutevoli, ma pur sempre forzatura.

Possiamo anche spiegarcela. Quando si è estinto, con Tamagno, il tenore "contraltino", lo si è rimpiazzato con il tenore drammatico nocevecentesco (da Caruso giù giù fino a oggi).
A quel punto il baritono chiaro, acuto, "antico" (come ancora Faure, Battistini, Maurel) non andava più bene, perchè - per timbro ed estensione - assomigliava troppo al tenore.
E così i baritoni verdiani novecenteschi hanno cominciato ad abbassare il loro baricentro, ad esibire voci più scure e gravi (insomma, come dici tu, più "vecchie", più "mature", meno esuberanti, giovanili, passionali).
Se è vera questa ipotesi, allora tanto Gobbi, quanto Bastianini (per non parlare del maestoso Tagliabue, giù giù sino a Bruson, Nucci, ecc..) non andrebbero più assunti a modello vocale di baritono verdiano, per il quale sarebbe preferibile (oggi) un baritono acuto o un tenore baritonale.



Grazie per la replica.
Mi permetto di aggiungere qualcosa anche sulla scorta della passata discussione sulla vocalità verdiana in generale. In quella sede dicevi, più o meno, che la linea vocale verdiana (a differenza di quella tipicamente belliniana o donizettiana) richiede una almeno parziale disponibilità dell'interprete al colorismo. Ebbene, il discorso è particolarmente calzante proprio per la voce del baritono. Ho infatti l'impressione che, a grandi linee, Verdi identifichi nel registro baritonale il registro del personaggio maschile più lacerato, psicologicamente più sfaccettato. E, logicamente, la linea melodica del baritono tende, più che nelle altre voci maschili, a frangersi a plasmarsi sulla benedetta parola scenica. Il che, naturalmente, richiederebbe un canto adeguatamente iridescente. Mi spingo oltre: per usare il tuo linguaggio ho l'impressione che il quid Varesi : Chessygrin : : Chessygrin : fosse una capacità rabdomantica di dare alla propria vocalità un ventaglio di inflessioni molto più vario degli stilizzati bassi cantanti alla Tamburini. Almeno a giudicare dalle parti di Macbeth e di Rigoletto e dal consiglio di Verdi di seguire più il poeta che il maestro. Frase che potrebbe interpretarsi come un consiglio a cogliere le suggestioni della frase, della cellula melodica, piuttosto che cercare una (inesistente?) arcata melodica stilizzata e stilizzante. Non sono così ferrato nella storia della vocalità, ma ho il sospetto che i prerequisisti di questa vocalità verdiana fossero più facili da trovare tra gli eredi dei Nozzari, dei Nourrit e dei Donzelli che negli epigoni di Tamburini (forse sbaglio). La violenta contrapposizione tra il vigore del registro "di petto" e il falsettone degli acuti (do, do # , anche re) doveva in qualche modo dare familiarità a cercare colori diversi nella propria voce.

Il tenore verdiano, sempre a grandi linee, tenda più a guardare - in un buon manipolo di partiture- al passato, ad un vocalismo magari energico ma sempre, come dire, compatto nella linea vocale. Mi spiego con qualche esempio il duca può permettersi (e secondo me richiede) una lettura vocalistica, Rigoletto NO; Alfredo può essere vocalistico, Germont molto meno. Arrigo è vocalistico (un vocalismo molto esotico per giunta), Monforte è scavato, iridescente, coloristico. Per Simone, poi, sono completamente d'accordo con quanto quotato. Addirittura, fuori tempo massimo si direbbe, Otello è vocalistico e Jago simildeclamatorio. Non ci vuole un genio per capire che Verdi può avere puntato alla contrapposizione tra vocalismo tenorile e colorismo baritonale come sturmento per insaporire l'antagonismo tra i personaggi dei suoi drammi.Poi, faccio anch'io del sano relativismo, il gioco non è sempre questo. La forza del destino, ad esempio, non risponde affatto a questo schema. Don Carlos, a mio avviso, complica le cose in maniera incredibile: l'infante, così malato, tende al colorismo; Posa, pur con le sue ambiguità, tende all'araldico, ad un'integrità umana che chiama una vocalità altrettanto "integerrima". Ma di nuovo scavato, sfaccettato dovrebbe essere Filippo (un basso piuttosto acuto), mentre l'Inquisitore è roccioso, tetragono, orgogliosamente appoggiato alla propria unilateralità ideologica e.... al fiato.

Un posto a parte, secondo me, l'hanno poi i primi ruoli baritonali verdiani: Nabucco, Ezio, Carlo V paiono ancora molto legati ad una cultura improntata al vocalismo; energico, marcato fin che si vuole, ma pur sempre di vocalismo si tratta. In questi ruoli, probabilmente, non era stato ancora individuato il quid verdiano per il baritono. Complice il fatto (in due casi su tre) che il tenore non ha un ruolo fondamentale dell'opera?
Per inciso ho un debole per gli immortali vertici dell'ultimo dei romani. : Chessygrin : : Chessygrin : : Chessygrin :
Ultima modifica di Rodrigo il dom 02 mag 2010, 18:25, modificato 3 volte in totale.
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Re: Baritono. tipologia vocale e sue radici

Messaggioda MatMarazzi » sab 01 mag 2010, 16:33

Rodrigo ha scritto:Ho infatti l'impressione che, a grandi linee, Verdi identifichi nel registro baritonale il registro del personaggio maschile più lacerato, psicologicamente più sfaccettato. E, logicamente, la linea melodica del baritono tende, più che nelle altre voci maschili, a frangersi a plasmarsi sulla benedetta parola scenica. Il che, naturalmente, richiederebbe un canto adeguatamente iridescente.


Sono assolutamente d'accordo.
In particolare trovo eccitante il discorso in merito ai tenori verdiani (che pure sono personaggi sconvolti e sconquassanti a loro volta).
Per questi personaggi il modello "Duprez" (poi divenuto Tamberlick e Tamagno) agiva con forza su Verdi; è evidente che la proiezione acuta e le tensioni derivanti dall'estensione in acuto del registro comunemente detto di petto bastavano a dare ai personaggi un impronta di grandiosità giovane e febbrile.
Ribadico che l'idea di confrontare, nella stessa opera, un tenore drammatico novecentesco (in veste di baritono) e un tenore acuto di memorie ottocentesche non sarebbe stata male!
Per dire: Corelli e Del Monaco in "Solenne in quest'ora" (o, meglio, in "questura", considerando la lotta di acuti e gigionate che i due grandi avrebbero ingaggiato). :)

per usare il tuo linguaggio ho l'impressione che il quid Varesi : Chessygrin : : Chessygrin : fosse una capacità rabdomantica di dare alla propria vocalità un ventaglio di inflessioni molto più vario degli stilizzati bassi cantanti alla Tamburini. Almeno a giudicare dalle parti di Macbeth e di Rigoletto e dal consiglio di Verdi di seguire più il poeta che il maestro. Frase che potrebbe interpretarsi come un consiglio a cogliere le suggestioni della frase, della cellula melodica, piuttosto che cercare una (inesistente?) arcata melodica stilizzata e stilizzante. Non sono così ferrato nella storia della vocalità, ma ho il sospetto che i prerequisisti di questa vocalità verdiana fossero più facili da trovare tra gli eredi dei Nozzari, dei Nourrit e dei Donzelli che negli epigoni di Tamburini (forse sbaglio). La violenta contrapposizione tra il vigore del registro "di petto" e il falsettone degli acuti (do, do # , anche re) doveva in qualche modo dare familiarità a cercare colori diversi nella propria voce.


Sono ASSOLUTAMENTE d'accordo.
Anzi, ti ringrazio di averci sottoposto una così brillante considerazione.

Addirittura, fuori tempo massimo si direbbe, Otello è vocalistico e Jago simildeclamatorio.

Dal tuo schema (assolutamente perfetto) terrei fuori i personaggi scritti per Maurel.
Quest'ultimo aveva caratteristiche molto diverse dai baritoni per cui Verdi era solito scrivere; il termine "colorismo" riferito a Jago e Falstaff ci sta... Ma non credo che parti così "virtuose" potrebbero stare bene a declamatori (e gli interpreti novecenteschi ce lo confermano).
In proposito trovo molto coerente la tua "deroga" sul caso di Vargas... Che Verdi avesse presente un tipo alla "francese" (un Faure, ad esempio) memore del suo Rodrigo di Posa, è molto, molto probabile, e ciò avvicinerebbe questo personaggio ai futuri ruoli Maurel.

Sarebbe bello fare una disamina anche dei ruoli Maurel e assimilati.
Si arriverebbe alla conclusione che proprio un Keenlyside e famigli sarebbero l'idale anche tecnico-vocale per questi personaggi.

Un posto a parte, secondo me, l'hanno poi i primi ruoli baritonali verdiani Nabucco, Ezio, Carlo V, secondo me molto legati ad una cultura improntata al vocalismo: energico, marcato ma pur sempre di vocalismo si tratta. Qui secondo me, non era stato ancora individuato il quid verdiano per il baritono. Complice il fatto (in due casi su tre) che il tenore non ha un ruolo fondamentale dell'opera?


Per me è anche complice il fatto che il Verdi di queste opere non aveva ancora elaborato la sua rivoluzione, che sarebbe partita con la collaborazione con Piave.
E' vero che Ernani è già di Piave (infatti Carlo V è molto più interessante drammaturgicamente di Nabucco ed Ezio) ma all'epoca compositore e librettista non si erano ancora conosciuti bene; si limitavano a studiarsi...
Il povero Verdi "solerizzato" non era proprio in grado di concepire modelli vocali davvero originali.

Salutoni,
Matteo
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