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Nemmeno quelli che vanno predicando l'esperienza messianica del suo Parsifal a Bayreuth, visto almeno venti volte dal vivo (anche io l'ho visto dal vivo, ma una sola volta).
Nemmeno quelli che vanno "vociferando" (che vuol dire "spargere voce" e non "gridare" come impropriamente diceva Celletti e puntualmente ripetono i suoi replicanti) che la "cupola" di Operadisc (
) condizionerebbe il pubblico italiano sui registi di oggi. eheheh... magari fosse!
E' comunque vero che se non siamo noi di Operadisc a lanciare in Italia un dibattito su Herheim, dopo che l'abbiamo fatto per i Jones, i Guth e i Tcherniakov, non so chi potrebbe farlo
Questo geniale mattacchione ha tutte le caratteritiche per essere uno dei nostri protegés: modernità di immagine, culto della forma, libertà di contenuti (fuori dai totem marxian-freudian-sessantottardi ancora virulenti in Germania e talvolta persino in Italia) e soprattutto una disumana capacità di connettere ciò che si vede (lo spazio, la luce, il gesto) con ciò che si sente.
IL suo divertimento consiste nel rivoltare le opere come calzini: farne a pezzi la linea narrativa, raccoglierne i cocci e rappresentare qualcosa d'altro.
Ma, attenzione, non al modo di Tcherniakov, che realizza poderose ricostruzioni cinematografiche, di fortissima coerenza realistica.
Herheim fa esattamente l'opposto: i suoi edifici drammaturgici si elevano sulle macerie della destrutturazione con simboli iperbolici e pazzeschi, a metà tra il delirio onirico e il fumetto. Le sue rielaborazioni simboliche hanno sì profondità geniali ma nel contempo un'ironia infantile, giocosa, irridente e disarmante.
Dopo il flop clamoroso del Ratto dal Serraglio a Salisburgo (flop dovuto più a inesperienza, secondo me; ...al non aver ancora compreso le regole del gioco) la sua rinascita è stata a Bayreuth, con un Parsifal che ha fatto tirare un sospiro di sollievo ai wagnerofili demoralizzati da anni di allestimenti fallimentari.
I tre atti del Parsifal diventavano con Herheim tre fasi della storia stessa di Bayreuth:
Atto I: i gloriosi prolegomena del pionierismo di Cosima, sullo sfondo di Villa Wahnfried
Atto II: l'incubo negato e il compromesso col Nazismo, durante la seconda guerra mondiale
Atto III: la Bayreuth post-bellica, alle prese con concessioni ministeriali, dibattiti parlamentari e sovvenzioni pubbliche.
Eccitante, divertente, profondo, un Parsifal con scene e giochi che sarebbero piaciuto a un bambino, ma dalla profondità che spazza via decenni di intellettualismo ottuso; un Parsifal che sa trascendere i "suoi" simboli, per diventare simbolo della storia, specchio del pubblico, riflesso del nostro amore per il mito di Wagner...
Indimenticabile davvero, eppure non tutto filava secondo me; la sfida di far esplodere Parsifal e ricomporne i pezzi in un monumentale gioco di simboli era davvero audace.
Come commentò il Maugham (dalle sintesi sempre fulminanti) "idee spesso più belle sul tavolino, che sul palcoscenico".
Qualcosa non ha funzionato, ma la rivelazione del genio l'ho avuta.
La rivelazione definitiva e incontrovertibile mi è arrivata però alcuni mesi dopo.
Eravamo a Salisburgo, Festival di Pasqua 2010: Salome con i Berliner e Rattle...
E qui ho capito.
Su Operadisc avevo già scritto il commento della sua Salome, quindi mi limito a ricopiarlo.
In una scenografia di impatto grandioso (menzione speciale a Heike Scheele) il regista norvegese, già noto per varie malefatte, ha elaborato una suggestiva metafora sulla reciprocità dello sguardo e sulle conseguenze apocalittiche che esso può generare.
Proverò a raccontarvi lo spettacolo, ma non sarà facile.
Partiremo con l’osservare che nel libretto si insiste moltissimo sull’azione del “guardare”: Salome guarda Jochanaan il quale non vuole essereguardato; nemmno Narraboth (che a sua volta guarda ossessivamente Salome, contro l’opinione del paggio) vorrebbe che Salome guardasse il Profeta; Herodias non vuole che il marito guardi Salome e Salome stessa si chiede perché il patrigno la guardi con tanta insistenza.
Ma soprattutto è Salome che, alla fine dell’opera, canta alla testa del Battista - su un tema lacerante - “se mi avessi guardato, tu mi avresti amata”.
Insomma, la questione non è irrilevante: il simbolo dello “sguardo” in Salome significa molto. Resta da decidere che senso vogliamo attribuirgli.
Facciamo un esempio. Prendiamo la Luna (immensa e onnipresente, tanto nel libretto, quanto nella regia di Herheim).
Chi di noi non ama guardarla? E’ un astro bellissimo e non ci fa paura: infatti è lontanissima ed inconsapevole che siamo lì a spiarla; è un oggetto e basta, indifferente al nostro telescopio. Possiamo guardarla come piace a noi, ovvero "superficialmente": non ci interessa sapere cosa si nasconde sotto la sua piacevole superficie. Ci piace solo perché è un oggetto superficialmente bello.
Ma soprattutto, come dicevo, non ci fa paura: non può infatti succedere che sia lei a guardare noi, ricambiando la nostra violenza. Siamo noi, al nostro telescopio, gli unici soggetti di questo sguardo NON reciproco! Solo noi siamo i padroni della situazione.
La stessa cosa accade quando guardiamo di nascosto una bella donna sconosciuta, una di quelle “Barbie” bionde e procaci da riviste patinate: la guardiamo senza che lei lo sappia, la spiamo, le ispezioniamo gambe e scollatura, mentre lei (indifesa perché inconsapevole) è ridotta a fungere da nostro “oggetto”.
Tutto questo funziona alla meraviglia finché lo sguardo non è reciproco; finché cioè c’è un soggetto (noi) e un oggetto (la luna e la Barbie).
Bene!
Cosa succederebbe però se, mentre ce ne stiamo tranquilli a fissare la Luna, essa improvvisamente spalancasse cento terribili egiganteschi occhi proprio su noi, piccoli, indifesi e sbigottiti?
Cosa succederebbe se la Barbie che di notte spiamo dalla finestra, mentre si spoglia, improvvisamente si voltasse e ci scoprisse, ci ficcasse addosso i suoi occhi pieni di disprezzo, puntasse il suo dito contro di noi?
Succederebbe che noi da soggetti, da padroni della situazione, diventeremmo oggetti, vittime dello sguardo altrui, che ci giudica, ci penetra come un coltello.
Tanto più che la Luna/Barbie, divenuta "soggetto" a sua volta grazie allo sguardo reciproco, non ammetterà più di essere guardata solo in superficie come piaceva a noi(le gambe, la scollatura): pretenderà di essere conosciuta per quello che ha dentro!
Insomma, vi chiedo: continuerebbe a piacerci guardare la Luna se la sua superficie (l'unica che ci interessi) fosse infranta? Se una voragine aperta a cannonate ci costringesse a vedere quello che c’è sotto la sua poetica apparenza!
Ricapitolando, la reciprocità dello sguardo non solo ci fa perdere il nostro statuto di “padroni della situazione” e ci trasforma in oggetti altrui, ma - quel che è peggio - ci costringe anche a capire l'altro, a scenderere sotto quella superficie che ci rassicurava e appagava.
Siamo disposti ad accettare tutto questo?
E’ disposto l'uomo che ha smesso di guardare sua moglie (e che volge il suo sguardo a oggetti, come la luna o le Barbie) a rimettere i suoi occhi in quelli della compagna, a vedere cosa c’è dentro lei e a farle vedere quel che è nascosto in lui?
I protagonisti dell’opera, in questo allestimento, sono un marito (Herodes e Narraboth, che fanno lo stesso personaggio) e una moglie (Herodias e il Paggio, qui in tutto e per tutto femmina). Il matrimonio è infelice proprio perché l’uomo rifiuta alla donna la reciprocità dello sguardo. Preferisce fissare la luna da un grande telescopio o una Barbie che gli cammina davanti.
Ma ecco che la Luna/Barbie prende vita: diventa il terzopersonaggio. Non le basta più essere spiata sotto la gonna ma vuole essere guardata negli occhi; e soprattuto vuole guardare lei stessa; vuole infilarsi dentro quella “cisterna” sigillata in cui l’uomo nasconde la sua più segreta verità (Jochanaan).
Ed ecco come sguardo e apocalisse diventano una sola cosa.Concludo dicendo che, grazie al mio solito pusher, ora ho anche visto la sua Rusalka, ahimé solo in video (per ora, perché conto di vedermela dal vivo a Barcelona fra qualche mese).
Posso dirlo: la sua Rusalka mi è parsa uno dei più grandi capolavori registici di tutti i tempi.
Un testo da far studiare a memoria a tutti gli aspiranti registi e (meglio ancora) a tutti gli appassionati di teatro musicale.
Se qualcun altro l'ha vista, non sarebbe male parlarne.
Lissner, ora mi rivolgo a te.
Ci hai ascoltato su Guth, ci hai ascoltato su Jones, ci hai ascoltato su Cerniakov (anzi, a dire il vero, il genio di Cerniakov l'avevi già capito da solo)
Ora è il momento di far venire alla Scala Herheim, affinché anche il pubblico italiano lo conosca!
MA, TI PREGO, NON IN TRAVIATA!!!!
Forza amici: consigliamo a Lissner un titolo giusto per un 7 dicembre con Herheim.
Salutoni,
Mat