Moderatori: DottorMalatesta, Maugham
Triboulet ha scritto:atteso che stiamo parlando di un direttore di spessore, cosa cerca il nostro orecchio che Muti non è riuscito a darci?
DottorMalatesta ha scritto:1. Quali incisioni dirette da Muti si possono dire di riferimento?
DottorMalatesta ha scritto:2. In cosa l´approccio di Muti in Verdi si discosta (ammesso che lo faccia realmente) dalla visione di Toscanini?
Io una risposta me la sono data, e credo non riguardi solo Muti: si riallaccia al diverso modo che il pubblico ha di fruire di uno spettacolo operistico. Provo a spiegarmi (con l’ovvia premessa che andrò di machete a semplificare: è chiaro che il discorso sarebbe più complesso).
Dagli anni ’60 in poi si sono verificati due mutamenti epocali nella messinscena operistica (che, a mio parere, ne hanno consentito la sopravvivenza, ma questo è altro discorso): la rivoluzione filologica ed il nuovo ruolo del regista. Come ha brillantemente detto Matteo in qualche altro post, la rivoluzione filologica non riguarda meramente aspetti esecutivi, ma culturali, di rapporto fra esecutore e pubblico. Prima, il grado di “creatività” che un direttore d’orchestra aveva era infinitamente più limitato: messo davanti alla partitura del Fidelio, il suo problema era principalmente interpretativo; adesso deve porsi anche il problema di che tipo di suono vuole creare. Mezzo secolo fa, il Trovatore di Karajan era forse molto meglio suonato e molto più ricco di idee di quello di Votto, ma la sostanza era quella, il testo musicale era un elemento dato. E il pubblico lo sapeva: entrando a teatro non aveva bisogno di porsi il problema di che tipo di suoni avrebbe ascoltato. Adesso, se io vado a sentire il Trovatore di Minkowski, non so cosa posso aspettarmi; o meglio, so che posso aspettarmi qualsiasi cosa. Questo cambia il rapporto fra esecutore e pubblico: il secondo ha un’aspettativa maggiore, vuole che il direttore si ponga il problema di che mondo sonoro vuole e deve creare con riferimento ad una specifica opera.
Lo stesso vale per il ruolo del regista: il fatto che quest’ultimo abbia ottenuto un ruolo creativo pari a quello del direttore e una libertà assoluta nella gestione delle immagini che crea pone sulle spalle del pubblico un compito molto più complesso nel recepire lo spettacolo; compito che, per una larga fetta di pubblico, è diventata un’aspettativa. So bene che non per tutto il pubblico è così; ma è così per quella parte di pubblico che viaggia, compra dvd, che (per usare un termine orribile) “fa tendenza”. Non dico nemmeno che sia giusto così: capisco anzi benissimo che dissente da ciò che il modo di concepire l’opera è diventato: ma non ci si può fare nulla…
Bene, Muti tutto questo non l’ha capito, o non l’ha voluto capire: per lui il direttore d’orchestra è ancora l’officiante che celebra un rito; da una parte gli esecutori che danno vita ad un testo immutabile, dall’altro il pubblico che recepisce quel testo. Ma il pubblico non vuole più questo tipo di rapporto. Per questo poco importa che la sua Lodoiska fosse ben diretta: se gli si propone quell’opera, il pubblico vuole che gli interpreti si pongano il problema di quale fosse il ruolo di uno spettacolo operistico nella Parigi rivoluzionaria, di quali tensioni vi fossero rappresentate e poi, una volta postisi e risolti questi problemi, provino anche a dirgli perché quel mondo ha qualcosa da dire ad un uomo del XX secolo. Se invece si trova davanti la direzione bellissima ma neutra di Muti, il fumettone di Ronconi e la Lodoiska della Devia (bravissima ma totalmente assurda in quel ruolo), andrà comunque a teatro per ascoltare un’opera di rara esecuzione, ma poi alzerà le spalle e passerà oltre, magari concentrandosi su Christie e i suoi in Rameau, che quei problemi se li pongono.
Al contrario, Abbado tutto quanto sopra lo ha capito benissimo: ogni suo approccio ad un testo fa trasparire (nella ricerca sonora, nella scelta dei collaboratori, ecc.) una riflessione continua, il tentativo di decodificare il testo con strumenti che il pubblico sente come contemporanei. E il pubblico, a quel punto, lo segue: magari contestando i risultati, ma non l’approccio.
Io, almeno, la vedo così e, ribadisco, mi dispiace, perché credo che Muti avrebbe potuto avere un ruolo importante proprio in un repertorio che a me interessa molto, ma così non è stato…
Saluti,
Beck
beckmesser ha scritto:Sono perfettamente d’accordo con teo.emme: le scelte di repertorio di Muti alla Scala non sono in nulla meno varie, originali ed intriganti di quelle di Abbado.
cosa cerca il nostro orecchio che Muti non è riuscito a darci?
Complimenti Beck
un post bellissimo, esemplare, che sintetizza perfettametne il pensiero di molti.
E tuttavia...
beckmesser ha scritto:Sono perfettamente d’accordo con teo.emme: le scelte di repertorio di Muti alla Scala non sono in nulla meno varie, originali ed intriganti di quelle di Abbado.
Qui vorrei fare una precisazione, anche se ho capito benissimo cosa vuoi dire e sono d'accordo.
Nelle scelte del "suo" repertorio Muti è stato capace di idee "varie, originali e intriganti".
Nel gestire il repertorio della Scala di Milano (che è il "nostro" teatro più importante) invece le sue scelte sono state, contrariamente a quanto afferma Teo.Emme, provinciali, squallide e oscurantiste.
Il fatto è che un teatro come la Scala non può esclusivamente conformarsi alle caratteristiche dei propri "divi" di riferimento.
E' doveroso valorizzarli, questo sì, purché la programmazione non perda di vista la propria necessità storica, che è quella di offrire un panorama completo di tutte le tendenze artistiche prioritarie nel mondo.
Vediamo di ricordare cosa avveniva ai tempi della Callas (quando la Scala era la "Scallas").
Certo! Disponi di un simile genio e quindi è normale che intorno a lei si ritagliasse parte della programmazione: per la "Divina" veniva riesumati i Cherubini e i Donizetti, i Bellini e gli Spontini, i Gluck e i Rossini.
Però nel contempo nulla di ciò che accadeva nel mondo sfuggiva al pubblico milanese.
A Vienna esplodeva il fenomeno del nuovo "Mozart"? La Scala lo importava.
La Neue Bayreuth lanciava un nuovo linguaggio in Wagner: ed ecco che i campioni arrivavano subito a Milano.
Negli anni 50, alla Scala si scritturava Karajan in Strauss e Mozart, Furtwaengler in Wagner e Gluck, Mitropoulos in Berg e Busoni.
Si invitavano (e sul podio di opere, non solo per concerti) direttori come Bernstein e Knappertsbusch, Kubelik e Cluyteuns, Boehm e Scherchen, Schippers e Clemens Krauss.
Si invitavano i registi più all'avanguardia dalla Germania, dalla Francia o dalla Russia, come Felsenstein, la Pavlova, Vilar e Gunther Rennert.
Negli stessi anni si convincevano i nostri Strheler e Visconti a fare i loro primi passi nell'opera.
A livello di titoli, si sperimentavano tutti i repertori: dalla Fiera di Sorochtinski a Mathis der Mahler, dalla Piccola Volpe Astuta all'Ercole di Haendel, dal Matrimonio segreto a Progy and Bess, il tutto continuando a creare opere nuove di Orff, Poulenc, Milhaud, Pizzetti e De Falla.
La Schwarzkopf tornava ogni stagione (magari debuttando come Marescialla, oltre che in Elsa, Elisabeth, Melisande e Alice Ford). Un Vinay veniva persuaso a studiare per la Scala Kitesch di Rimsky Korsakov e il Cirano di Bergerac. Un Borkh debuttava per la Scala nella Fiamma di Respighi e nella Katerina Izmailova di Shostakovic. La Crespin cantava la sua unica Fedra di Pizzetti. La Rysanek creò alla Scala la sua prima Crisotemide e la Nilsson la sua prima Turandot e la sua unica Kundry....
E tutto questo non avveniva in vent'anni, ma in poco più di dieci: gli anni della Callas.
Quello che voglio dire è che la Scala, oltre a portare avanti le specificità dei propri artisti, dovrebbe anche rendere conto all'Italia intera delle tendenze vincenti nel mondo.
Dovrebbe essere principalmente una grande vetrina di scuole, che confluiscono lì ai più alti livelli (è per questo che prende più soldi di ogni altro teatro italiano).
Con Abbado e Grassi (sia pure in misura decisamente minore che negli anni '50) la Scala era aperta ai fermenti del mondo.
Con Muti no. Da vetrina internazionale la Scala è diventata specchio del narcisismo di un solo uomo e levò per due decenni barriere titancihe (edificate, temo, soprattutto con l'ignoranza) contro qualsiasi cosa succedesse nel mondo . Non una delle grandi rivoluzioni del mondo dell'opera negli anni '90 arrivò da noi: arrivano ora, stanche e invecchiate, con la gestione Lissner.
Altro che "vario e intrigante"; il repertorio scaligero del ventennio mutiano è una tragedia.
Tornando agli interrogativi posti da Triboulet...
cosa cerca il nostro orecchio che Muti non è riuscito a darci?
La mia risposta è di natura più psicologica che tecnica.
Qualcuno disse che l'Italia è quel paese in cui, se salta fuori un gran generale, lo si fa ministro della guerra (col risultato di perdere un gran generale e ottenere un pessimo ministro della guerra).
Per me, il fatto è che Muti non era assolutamente nato per fare il ministro (e tantomeno il monarca).
Troppo limitata la sua visione, troppo "istintiva" (come diceva anche Vizzardelli) la sua sensibilità, troppo rissoso ed egocentrico per avere a cuore un interesse collettivo.
In compenso come generale era straordinario: talentuoso, intuitivo, generoso, instancabile e molto, molto preparato in ogni strategia.
Poteva essere un gigante, purché qualcuno, al di sopra di lui e con visioni più ampie, complesse, elastiche, lo indirizzasse, come avveniva a Firenze.
Il disastro è dipeso dal fatto che Muti (inconsapevole dei propri limiti, come ogni generale che si rispetti) ha deciso - ditino nell'orecchio - di ascendere al ruolo di ministro...
Ma che dico ministro? re, imperatore...
In questa veste è stato catastrofico! Non solo ha goveranto la Scala in modo disastroso, ma è riuscito ad annientare persino quei meriti "tattici" che avevano fatto di lui un grande generale.
Non essendoci più nessuno al di sopra di lui che potesse orientare le sue scelte interpretative, i difetti si sono ingigantiti quanto i pregi; l'istinto teatrale "sanguigno" ha schiacciato ogni velleità di approfondimento interpretativo; il culto della forma è diventato celebrazione sterile; la mancanza di visione culturale (suo eterno problema, anche negli anni giovanili, ma ora non più contrastato da alcun interlocutore) ha portato a letture sempre più puerili e alteramente ingenue.
Non arrivando a capire la forza delle nuove tendenze artistiche, che nel frattempo venivano emergendo, ha pensato di avere la forza di oscurarle tutte, convinto (come ogni generale che si prende per un imperatore) di essere imbattibile.
Abbado è stato probabilmente sovrastimato... ne convengo. Ed è vero che anche lui in quanto a culto della personalità non scherza.
Ma si è mai preso per un imperatore, come Muti; tutt'altro. Ha sempre compreso la necessità di confrontarsi agli altri e di affidarsi ad "autorità" che potessero indirizzarlo.
E' vero che anche lui comanda (oh... se comanda!) ma lo fa solo sui suoi soldati. Ai tempi della Scala, non comandava certo su Paolo Grassi o su Carlo Maria Badini.
Io almeno la vedo così.
Salutoni,
Mat
Ninci ha scritto:E' molto interessante vedere come di Muti sia impossibile avere un'immagine univoca.
Tutti sono concordi nel riconoscergli tratti di autentica grandezza (solo un imbecille può negare che si tratti di un grande direttore), ma circondano questa grandezza di tanti e tali limiti che la grandezza diviene immediatamente piccina piccina. Il bello è che questi limiti, a seconda di chi parla, sono sempre diversi; tant'è che l'immagine del direttore si sfarina in una specie di caleidoscopio.
Così è per Muti. Alcuni dicono che manca di cultura. Altri invece che è proprio quando fa cultura che cade. E così via, di contraddizione in contraddizione.
Infine una piccola notazione. Quando si parla di Muti, appena se ne parla, subito appare il paragone con Abbado, naturalmente a sfavore del Nostro. Il bello è che questo paragone appare nel momento stesso in cui si afferma a chiare lettere di non volerlo istituire. E' un modo di procedere che mi ricorda un saggetto magistrale di Freud sulla negazione.
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