Rodrigo ha scritto:mi sono sempre domandato quanto vi sia di Toscanini dietro le scelte di repertorio, di cast, di approccio alla partitura di tanti direttori che in un modo o nell'altro sono stati a lui prossimi o che ne hanno risentito l'influenza.
Quello che apri, Rodrigo, è un problema enorme e a cui difficilmente potrei dare una risposta.
Diciamo che l'influenza di Toscanini, a mio giudizio, è ben ravvisabile nelle conseguenze a largo raggio.
Sradicare Verdi dal modo "melodico" tipico dell'opera italiana, irrobustirlo in una tensione ritmica che nulla concede alla tradizionali libertà del "fraseggio" (ritmico-dinamiche) e in un'allucinante compressione sonora, era - in pratica - un allinearlo alle conquiste del "modo wagneriano", così come allora lo si concepiva.
E questo ha condizionato moltissimi direttori del dopo-guerra, giù giù fino a Riccardo Muti.
Ma se pensi a quanti cantanti "declamatori" (anche e soprattutto in Italia) ci sono stati imposti in Verdi dagli anni 50 a oggi, ti rendi conto di quante e quali conseguenza il Toscaninismo abbia avuto.
Sinceramente se questa influenza si sia potuta esercitare negli USA già durante la guerra non saprei dirlo.
A me pare piuttosto che al Met già circolasse, prima di Toscanini, la tendenza a wagnerizzare un po' l'ultimo Verdi (e, se è vero, un Leinsdorf e uno Stiedry, per esempio, sarebbero allievi più di Bodanzky).
Ma la differenza con Toscanini mi pare vistosa: questo comprimeva, ingigantiva il dettaglio sonoro (come nei celebri esempi postati da Francesco); quelli dilatavano sontuosamente il respiro sinfonico, secondo una voga propria del "Wagner internazionale".
Molto interessante il confronto con i direttori italiani (che il cellettismo ha, come al solito furbescamente, bollati di "toscaniniani").
Toscaniniani nel senso più nobile del termine furono - a mio giudizio - Guarnieri e Cantelli.
In parte potrei arrivare a dirlo dell'ultimo De Sabata (quello del Tristano serratissimo alla Scala).
Votto (hai ragione) ereditò il culto del dettaglio sonoro... l'impegno a ricercare nell'accordo più semplice e banale un'intensità spasmodica e rivelatoria. E potrei aggiungere (ma con diverse perplessità) Mario Rossi.
In compenso Serafin (come hai scritto) non c'entrava nulla con Toscanini. E così pure Vittorio Gui. E nemmeno Franco Capuana o Alberto Erede.
Tutti questi direttori non hanno mai rinunciato, secondo me, al respiro della melodia, alla cantabilità, al rubato.
Si sono mantenuti coerenti con una tradizione più antica, giusto "nobilitata" (ai loro occhi) dal contatto con Wagner.
E' vero che tagliavano a loro volta i da capo e tolleravano di sorvolare sulle fioriture (ma non Gui!), ma tutto questo non lo presero di sicuro da Toscanini.
Era già nell'aria da almeno cinquant'anni.
Questo almeno pare a me...
Ma mi piacerebbe sapere cosa ne pensate tu e gli altri confratelli forensi.
Quanto a Francesco:
Basta sentire il livello medio dei direttori suoi contemporanei per rendersi conto che con il burbero parmigiano siamo davvero su un altro pianeta (con buona pace di Celletti che lo considerava poco più che un battisolfa il cui culto sarebbe dipeso per buona parte dal fattaccio del pugno di Bologna che, a detta del critico, avrebbe fatto di lui una figura mitica: queste ed altre farneticazioni nel libro "La grana della voce").
Come non darti ragione?
E tuttavia io non parlerei di farneticazioni, bensì di "furbate".
Celletti era uno specialista di furbate: stravolgimenti o negazioni della storia al fine di far quadrare (non importa a che prezzo) il cerchio dei suoi postulati.
E non è che le sue furbate fossero poi così sottili!
Era a suon di bastonate che il povero cerchio finiva, nei suoi scritti, per assomigliare a un quadrato!
Buon per lui che ha trovato tanta gente disposta a credergli pur di non fare la fatica di verificare le cose!
Salutoni,
Mat