Salve a tutti.
In una gita musicale del Wanderer Club, ho proprio potuto ascoltare la Antonacci al suo debutto in Medea al Capitol di Toulouse.
Posso confermarti che merita di essere vista.
Nemmeno lei, secondo me, ha la voce del ruolo (Angelique Scio); inoltre commise l'errore gravissimo - non per colpa sua - di cantare la solita versione wagnerizzante in circolazione, per giunta nell'infame traduzione italiana.
Temo che combinerà lo stesso pasticcio a Palermo.
Il tipo di scrittura (e i pesantissimi recitativi) l'hanno messa prevedibilmente alla corda; specialmente è stato penoso il primo atto, dove la tessitura acutissima (meditate, gente, meditate) l'ha costretta a una giostra di urla e strida strazianti.
Per fortuna, al secondo e soprattutto al terzo atto è emersa la sua grande dialettica, capace di aprire nuovi spaccati in un personaggio solitamente prigioniero della sua monumentalità.
La Medea dell'Antonacci è soprattutto femminile, impotente, teneramente bella, disperatamente incompresa. Le sue reazioni, per rabbiose che siano, sono l'espressione di un'umanità a cui è impossibile non credere.
Tutto sommato, di questa Medea veramente e follemente donna conservo un ricordo splendido.
Resto però dell'idea che si dovrebbe ricondurre la parte alle sue vere radici vocali e stilistiche, che sono quelle del teatro Feydeau.
Se può interessare, ho ritrovato il commento che scrissi in occasione di quella recita.
Un salutone
Matteo
L'orchestra del Capitole non parte benissimo (si scalderà strada facendo). Anche il direttore (Evelino Pidò) che pure tiene sempre in pugno la situazione sembra avaro di intuizioni risolventi.
I momenti migliori (almeno a mio gusto) verranno al terzo atto.
Sul fronte cantanti, bravina la Dell'Oste (Glauce). Molto meno il tenore Rossi Giordano (Giasone) e il basso Giuseppini (Creonte). Il primo, in particolare, ha esibito voce malferma, rigidità scenica e stravaganti rapporti col ritmo.
La regia di Kokkos, a sua volta, tarda a carburare: solite strutture classiche, solite allegorie geometriche, radi effetti illuministici.
Come per tutti gli approcci di Kokkos alle opere di argomento greco(Ifigenia, Troiani, Bassaridi) l'impostazione è confortevolmente "bipolare": in questo caso, il bianco della classicità, il nero della barbarie.
Strada facendo, va riconosciuto che lo spettacolo prende quota(anche se le Bassaridi a Parigi erano state molto più avvincenti).
Tra i momenti migliori, va annoverato l'ingresso degli argonauti al primo atto, capeggiati da una donna (il vello d'oro) vestita d'oro e mascherata da una testa di caprone (che Glauce respinge inorridita).
Belli anche i finali secondo e terzo (quest'ultimo in particolare, con Medea che piange mostrando le mani sporche del sangue dei figli).
E ora veniamo all'Antonacci.
Una Medea storica.
Anche se c'è voluto un po' prima che si rivelasse.
Il primo atto, infatti, era stato una delusione.
Forse bloccata dal "trac", più probabilmente schiacciata dalla tessitura, la Antonacci è partita maluccio con la grande aria:
e non solo per lo stridore degli acuti, ma per il generale disagio, l'assenza di sfumature.
Deludente anche il duetto successivo, che costringe la cantante a imbarazzanti acrobazie.
Per fortuna, all'apertura del secondo atto, sono bastate due note per rimettere la partita in gioco.
DA un lato, non si può tacere del magnetismo fisico, dell'energia attorale, della travolgente bellezza (nonostante il vestitone "classico", di un improbabile blu, e l'acconciatura di un gusto un po' Moira Orfei in "Medea contro Maciste" ...).
Dall'altro, la folgorante intensità della declamazione, nella sequela di affetti che rende unici i suoi recitativi monteverdiani e rossiniani.
L'accento è sempre talmente riveltaore che la voce ne appare ingigantita: ogni parola è scolpita, assoparata, esaltata.
Solo una declamatrice somma, ad esempio, può riuscire a *sussurrare* il furibondo "re degli Dei" (che di solito è occasione di rabbiose notacce di petto) e sibilarlo fra i denti.
Il suo "Numi venite a me" (udite udite... eseguito in misto e non di petto) ha colori talmente introversi e spettrali che quasi si palpa la paura, lo sgomento.
Va precisato che tanta espressività non corre mai il rischio di trascendere la natura neoclassica del declamato: la Antonacci arriva a Medea da Monteverdi e Gluck (e non per Strauss o Verdi, come le altre interpreti post-callassiane). Questo le conferisce un dominio e una proprietà dello stile che mai, nemmeno nei momenti più concitati, viene meno.
Anche livello psicologico, la Antonacci sorprende: non punta alla dismisura del ruolo (sarebbe stato un grave errore); al contrario ne setaccia ogni possibile scampolo di umanità, fino a "osare" la carta della femminilità.
La sua Medea è irresistibilmente donna: persino nella fragilità, nel deflagrare dei sentimenti, nell'umiliazione, nell'impotenza che solleva la disperazione.
Anche nel finale secondo, quando si contorce come un'animale in gabbia, batte i pugni sul petto, l'umanità indifesa di questa donna disperata prevale sull'orrore del personaggio.
Ovvio che, con simili premesse, la scena dei figli al terzo atto risulti di un'insolita emotività, struggente e appassionante.
Al suo fianco, abbiamo avuto l'onore di riascoltare la grande Sara Mingardo, che si è ricavata, come Neris, un piccolo trionfo personale.
Con la sobrietà, la misurata emozione, il rigore musicale ed estetico che le derivano dalla frequentazione del repertorio barocco, questa Neris contemporaneamente maestosa e discreta è risultata l'ombra "morale" di Medea, che la segue, l'accarezza, la protegge (ci prova) dagli altri e da se stessa. Un applauso fragoroso ha premiato la sua aria, distillata con purezza strumentale, e che, dopo i ruggiti della Antonacci, sembrava ricondurci in un'oasi di classicismo apollineo, misurabile, simmetrico ma non per questo rassicurante.